giovedì 29 maggio 2008

Rock anarchy


Ecco un disco sul quale sarebbe bello aprire un dibattito accademico, analizzarlo, vivisezionarlo, studiarlo, discuterne a lungo, litigarci sopra. E' un disco che sicuramente divide, tra chi lo trova geniale e chi pretestuoso. Personalmente, da ascoltatore fin qui perplesso della band, lo trovo affascinante, i My Morning Jacket continuano a non voler decidere che genere fare, ma rispetto al precedente "Z" si fanno più accattivanti.

I riferimenti si sprecano, la band di Jim James tenta di stabilire il record di uno stile diverso per ognuna delle quattordici canzoni del disco, e se fate un ascolto random di Evil urges, magari partendo dalla title track, passando per Higly Suspicious e fininendo con Two halves, capirete che ci vanno abbastanza vicini.

I My Morning Jacket sono artisti sicuramente non banali, che se riescono a restare concentrati e a non divagare troppo, o almeno a farlo con ispirazione, hanno un loro perchè nel panorama rock moderno.

In questo disco probabilmente confermano i loro limiti, ma mettono anche meglio a fuoco i loro pregi, attraverso una tempesta di chitarre, un buon feeling e anche, per una volta, la voglia di divertirsi in modo meno cerebrale e più diretto.

mercoledì 28 maggio 2008

Tanto lo so che non ci prendo mai

Sono perplesso di fronte a questo ritorno del lato capriccioso del Moratti collezionista di figurine, che si toglie gli sfizi a suon di milioni di euro con il suo giocattolo preferito, cioè l'Inter.
Lo sono per diverse ragioni. La prima è per i meriti che ritengo abbia Roberto Mancini. Persona indubbiamente poco simpatica, poco incline alla comunicazione e alla diplomazia, a volte troppo suscettibile e permaloso, ma dannatamente serio dal punto di vista dell’applicazione al lavoro e, seppur favorito nei suoi successi, dall’avvento di Moggiopoli, finalmente vincente in una società complicata e anarchica come l’effecì Inter.

Vincente con personalità, se è vero che la squadra nerazzurra giocava bene (certo, non è la Roma, ma diciamo che aveva una sua personalità, una sua forza) e che lo Jesino era riuscito, grazie anche all’apporto di un gruppo di giocatori duttili e “polivalenti” a gestirla quasi come un team di basket, cambiando efficacemente schemi (4-1-3-1; 4-4-2; 4-1-4-1;4-5-1) a seconda delle partite, o anche a match in corso e che era riuscito a sistemare problemi storici della squadra, come quello dei terzini, grazie al recupero di Maxell e la scoperta di Maicon oppure a lanciare quello che è probabilmente il giovane italiano più promettente, cioè Balotelli.
Non vi nascondo che covavo la speranza che il presidentissimo fosse maturato e che Mancini potesse fare a Milano quello che Ferguson, in termini di permanenza e successi, ha fatto a Manchester.

Niente da fare invece. Le ragioni di questa scelta di Moratti non le conosco, e comunque sui giornali si sprecano analisi e ironie. Probabilmente si era semplicemente usurato il rapporto personale oppure il Presidente voleva cambiare giocattolo, affascinato da tempo da uno come Jose Mourinho.

Ecco, non ho affatto una buona impressione riguardo al tecnico portoghese. Mi sembra un po’ una patacca, uno che vive ancora di rendita per la bella vittoria ottenuta in Champions con il Porto, e per l’immagine mediatica che è stato in grado di costruirsi. Uno che vuole essere sempre al centro dell’attenzione, in panchina o davanti ai taccuini dei giornalisti. Uno che si fa chiamare quasi come i cerali della Kellogs (special one), un antipatico artefatto che va a sostituire un antipatico naturale (il mancio). Uno che si porterà appresso il suo carrozzone di uomini fidati (si parla dei trentenni Deco, Droga e Lampard), uno che arriva per farci vincere una coppa che al Chelsea, con un dream team che ricorda tanto quello della milano nerazzurra, non ha vinto mai.Uno che nella centrifuga (cit.) dell’Inter lo vedo costantemente in preda a crisi di nervi. Uno che dovrebbe prendere nove milioni di euro l’anno, che sommati ai sei che Moratti continuerà a pagare a Mancini fanno capire che il grande capriccioso del calcio italiano è tornato.

lunedì 26 maggio 2008

Perfect night

In una piovosa serata irlandese arrivo in solitudine (che del mio socio Patrizio si sono perse le tracce) al Muisicdrome (ex Transilvania) intorno alle nove e un quarto. Il posto lo conoscevo per averci visto i (sigh!) Mission, qualche anno fa. Piccolo e soffocante quanto basta per essere trendy. Il palco è un francobollo, fatico a credere che i sette componenti dei migliori eredi dei Pogues possano starci tutti insieme.

Sul banco del bar hanno già preparato decine di bicchieri di plastica trasparente colmi di birra, pago cinque euro per il mio, mi giro, e un tipo in giubbotto di pelle me ne rovescia una parte addosso. Sorrido, gli faccio il segno di Fonzie e mi allontano. Mi applico nell’esercizio più diffuso per ammazzare il tempo prima di un concerto, l’analisi delle t-shirt degli spettatori. Direi che quelle dei Dropkick Murphys sono predominanti, ma anche Bandabardò e Modena City Ramblers se la giocano. Uno sfigato in con Eddie degli Iron Maiden verrà notato anche dal singer dei Flogging Molly che gli intonerà una "raaaan tu de iiillllssss", accompagnata da una fragorosa risata e un fuck you dovuto. Ad ogni modo il capo d’abbigliamento più inflazionato è la coppolina da irish working class, che fa bella mostra sulle teste di molti. Al banco delle t-shirt ufficiali ne scelgo una splendida verde con disegnato un claddagh ring, ma quando chiedo una XXL mi gelano dicendomi che quella maglietta c’è solo fino alla M, visto che è un modello da donna.

Neanche il tempo di finire la Nastro Azzurro, che salgono sul palco gli open acter Pepper, tipico power trio. Il cantante bassista (in short e petto nudo) che assomiglia in modo inquietante ad Aldo Baglio, il chitarrista, anche lui stesso abbigliamento del socio al basso e il batterista, il più vestito della compagine.

Fanno un genere che,almeno dal vivo, visto che su disco tendono più al dub, si poterebbe definire reggae con break hardcore e a volte hardcore con break reggae. In sostanza cominciano un pezzo con uno degli stili sopraccitati per poi irrompere con l’altro. Comunque si dannano, incoraggiati dalla buona reazione del pubblico, hanno un paio di pezzi che restano in mente (uno è Blackout), alla fine, proprio mentre si stanno scaldando (per modo di dire, visto che già dopo due minuti grondavano entrambi sudore) dal backstage gli fanno il segno dell’orologio. Finiscono l’ultimo pezzo con il coro Flooooo-gi-nn Mo-llllyyy!!! E salutano.
Poco dopo sono al banco mechandising a tacchinare un paio di bionde (sempre seminudi).

Una buona quarantina di minuti dopo, con il locale pieno, anche se non stracolmo, e passando per un’ottima selezione di musica diffusa (Hank III!!!; i Ramones di Blitzkreig bop cantati a gran voce da tutti) , sulle note di Baba O’Reily degli Who prendono posto gli Irlandesi americani. Sono a qualche metro dal palco, mi guardo in giro, giovanotti e ragazzine che sembrano tranquilli, si metteranno mica a pogare, no?
Sbagliato. Parte la fulminante Paddy’s lament e si scatena l’inferno (perdonatemi, era una vita che lo volevo scrivere): in un attimo mi trovo, prima contro le transenne sotto lo stage, e poi dalla parte opposta adosso al banco del mixer. E’ comunque un pogo non da carogne, per intendersi, niente gomitate in faccia o pugni nelle costole. Resisto a fatica ancora per un paio di brani, e che brani, Swagger e Requiem for a dying song, e poi mi arrendo all'istinto di sopravvivenza e arretro fin dove il pogo è occasionale e blando.

Guardo un po’ la band, il leader David King ha la tipica faccia dell’irlandese antipatico, un incrocio tra Mick Hucknaill, Elvis Costello e Patrizio Roversi. Al di là delle apparenze però il suo ruolo lo svolge egregiamente, e la voce tiene alla grande. Gli altri si guardano intorno smarriti ma divertiti, dopotutto i Flogging Molly di recente hanno ottenuto un discreto successo in USA, e spesso suonano in location medie, palazzetti da qualche migliaia di posti. Si trovano a Milano, in un buco afoso, davanti a due-trecento persone che pogano indemoniate e headbangano, e la cosa pare li diverta.

Nonostante il notevole valore dell’ultimo Float (il disco più venduto nella decennale storia della band), la set list ruota sui pezzi più vecchi, quelli maggiormente Pogues oriented, se è vero che solo quattro pezzi (oltre ai già citati Requiem for a dying song, Paddy’s Lament, l’ovvia Float e Lighting storm, stupisce la mancanza di un potenziale anthem come You won’t make a fool out of me) sono scelti dal disco in classifica USA. I pogatori però apprezzano la scelta, dimostrando una profonda conoscenza delle canzoni del repertorio del settetto (?) .

Nel mio piccolo una cultura me l’ero fatta, giusto in tempo per farmi trascinare dall’onda su pezzi quali Selfish man, Drunken Lullabies ( video di questo post) Tobacco island, The likes of you again, If i ever leave this world alive l’assassina Swagger. Tra una dedica a Gorge “double fuckin’” Bush e una a Joe Strummer, dopo una ventina di pezzi e un ora e mezza di show, David e i suoi salutano e se ne vanno. Tipico esempio di show in cui la durata è perfettamente coerente con il grado di resistenza fisica degli spettatori, o almeno del mio. Gran concerto, mi ci voleva una serata come questa.

Compro un paio di ciddì a dieci euro cadauno e mi avvio all’uscita proprio mentre il locale manda a tutto volume Perfect day di Lou Reed, ad accompagnare l’uscita della gente, dimostrando gusto e tempismo apprezzabile.

mercoledì 21 maggio 2008

Flo-ggin' Mo-llyyy!

Appeno mi riprendo dal selvaggio pogo in cui sono stato risucchiato qualche ora fa, vi racconto del torrido concerto dei Flogging Molly al Musicdrome.

domenica 18 maggio 2008

Percezioni



Escursione in montagna, tra laghi naturali, quiete e aria pura?



Naa. I cessi della direzione del personale, con vista Idroscalo...





martedì 13 maggio 2008

L'educazione sportiva dei figli


In questa settimana di cattivi pensieri sull'Inter, in cui mi sto domandando se è davvero il caso di crescere un figlio nerazzurro, mi vengono in mente un paio di storie dal comune denominatore (la passione calcistica da padre a figlio), ma dalla opposta conclusione.


Il primo aneddoto riguarda un personaggio noto: Claudio Amendola. Lui romanista, la compagna Francesca Neri laziale. Il figlio Rocco cresce come spesso accade per i maschietti molto attaccato alla madre, che cerca di portarlo sulla sua sponda calcistica. Lui, il papà, arranca. Si arriva ai 4-5 anni del piccolo e la situazione non si è ancora sbloccata, ma rischia di farlo a favore della Neri. Amendola allora mette in atto un piano subdolo e abietto.

Approfittando dell'assenza di Rocco(e ovviamente della Neri), nasconde fuori di casa tutti i suoi giocattoli. Il bambino torna a casa, si accorge della mancanza dei suoi ninnoli, è disperato. Entra il scena il Claudione. Gli dice "non te preoccupà, appapà, lo so chi è stato. Un laziale cattivo. Adesso chiamo i miei amici romanisti e te li faccio recuperare." Detto fatto. Poco dopo arriva l'amico di giallorosso vestito con il sacco dei giochi di Rocco. Missione compiuta e bambino fidelizzato a vita.
Nel raccontarla Amendola oscillava tra l'orgoglio tipicamente italiano per la furbata e, grazieaddio, un pò di vergogna.


L'altra storia è più breve e riguarda invece Gianni, amico napoletano di Monza. Gianni è una persona pacata, riflessiva e mai sopra le righe, ma con una passione smodata per il Napoli. E' uno di quei tifosi con cui non si litiga ed è bello discutere di calcio per ore.

Ha un figlio, Giorgio, che tifa per la Juventus. Quando l'ho saputo gli ho chiesto, come mai un simile tradimento. Mi ha risposto che era stato lui stesso ad indirizzarlo sulla strada dei bianconeri, perchè non poteva vederlo soffrire e macerarsi tutta la vita per una squadra come il Napoli. No, almeno uno in famiglia doveva godere per il calcio.
Questo è vero amore paterno.

venerdì 9 maggio 2008

Dream of Californication

Ieri, per la prima volta da quando Jimmy manda Californication, durante la trasmissione appariva in sovraimpressione (si scrive così? ) l'avviso: "la visione di questo programma è destinata ad un pubblico adulto".
Mah! Ci siamo detti, dopo millemila puntate si accorgono dei contenuti di questa serie? Che idioti!
Il finale di episodio ha chiarito il motivo dell'iniziativa del palinsesto.

Esplicita scena di sesso a tre, fra Hank, il suo agente e la bellona di turno (una sexy boxer già preda in passato del nostro scrittore preferito). Lei fa un pompino ad uno svogliatissimo Moody, mentre l'agente la scopa da dietro.
Hank si stufa e le chiede di smettere, lei si rifà chiedendo, ed ottenendo, un lavoro di bocca all'agente.
Sul più bello, mentre i tre stanno per essere sorpresi dalle rispettive ex, Hank chiede al suo agente di sospendere il cunnilingus perchè deve dirgli una cosa importante sulla pugilessa che si è ricordato solo in quel momento, lui, tutto preso, non lo ascolta, e la scena si conclude con lei che "squirta" in faccia al pelato amico di Moody,che gli dice "ecco è questo che ti dovevo dire", proprio mentre le ex compagne dei due entrano in camera da letto e restano pietrificate dalla scena.

Mito.

Slip slidin away

I Nine Inch Nails hanno reso disponibile a tutti, in download gratuito, la loro ultima fatica (The slip). Non sono esattamente un fan della band, anche se ho sicuramente apprezzato The downward spiral, e qualche canzone venuta dopo, ma, è superfluo scriverlo, apprezzo le iniziative atte a socializzare la musica.

Eccomi perciò, nel mio piccolo, ad accogliere il loro invito a pubblicizzare questa loro coraggiosa scelta.



The slip si scarica da qui

mercoledì 7 maggio 2008

SFU 4

E' finalmente cominciata (sempre su Cult ) la quarta serie di Six Feet Under. Ne sentivo la mancanza.

Pica!


Brutta cosa i pregiudizi applicati alla musica. Ogni tanto mi dimentico che da tempo mi sono dato la regola di non averne. Di sicuro l'ho scordato per Davide Van De Sfroos, ignorato finora un pò perchè mi repelleva la scelta del dialetto lecchese per i testi, un pò perchè facevo oziosi accostamenti tra il suo personaggio e la Lega.

Poi, in occasione dell'uscita del suo nuovo lavoro (Pica!) leggo un pò d'interviste, mi sembra un tipo interessante, dice che della lega gliene fotte, che suona ovunque lo invitino, feste dell'Unità comprese, e via, parte lo sdoganamento.

Ascolto prima El bestia, una traccia da un suo precedente lavoro (E semm partii), e mi illumino, il dialetto si sposa benissimo alla melodia, e la musica è un folk celtico di quelli che mi garbano tanto.

Passo allora all'ultimo disco, e le cose, possibile vanno ancora meglio, si parte con El puunt, con le fisa sugli scudi, che sembra di stare ad un concerto dei Mollys, la poesia de Lo sciamano, l'ironia de L'Alain Delon de Lenn e de La ballata del Cimino, la sofferta dedica a New Orleans e alla sua tragedia. Impressionante, nei pezzi in italiano (L'Alain Delon) la somiglianza con il timbro vocale di De Gregori.

Per me una bella, e colpevolmente tardiva, scoperta. Un must per chiunque apprezzi il folk irlandese, il country, i violini , le fisarmoniche, i flauti e le acustiche. Certo, il mio amato singalong annaspa, ma non mi tiro indietro, e vi assicuro che sentirmi cantare in dialetto lecchese è uno spettacolo impagabile.

Mi tocca in conclusione ricordare un altro artista italiano, che prima del Van De Sfroos, aveva realizzato un progetto simile. Il dialetto era quello delle valli occitane del piemonte, la musica in bilico tra la tradizione occitana appunto e il folk gaelico. Il gruppo c'è ancora e si chiama Lou Dalfin, il fondatore nonchè virtuoso della ghironda (strumento tipico di quelle parti) è Sergio Berardo. La fortuna non li ha cacati e sono rimasti uno splendido gruppo di culto. Io cerco di rendergli almeno onore e merito.

martedì 6 maggio 2008

Non sono un affamato di cronaca nera, di notizie truculente, di fatti agghiaccianti, ma nella lettura quotidiana a volte mi soffermo sulle notizie di questo genere. Ieri su Repubblica tre pagine sulla tragedia del padre-orco austriaco. A metà articolo mi ha preso un angoscia totale, gli occhi mi si sono riempiti di lacrime, faticavo a respirare. Sono rimasto in questo stato emotivo per alcuni istanti, l'unica cosa che volevo fare era tornare a casa e abbracciare mio figlio, stare con lui, proteggerlo.
Mi era successa la stessa cosa dopo aver letto le prime venti pagine di Dies Irae di Genna, ragione per cui l'avevo accantonato, e anche adesso che l'ho ripreso, mi ricapita ogni volta che l'autore milanese torna sul supplizio, a suo avviso provocato volutamente, di Alfredino Rampi.
Sono così da sempre, ma in particolar modo da quando sono diventato zio per la prima volta (e, beh sono già sedici anni),e naturalmente questa fragilità è amplificata ancora maggiormente con la paternità.
Quando vivi quotidianamente la fragilità dei bambini, i loro mille bisogni, le esigenze implicite di approvazione, la fiducia e la dipendenza che hanno negli adulti, e pensi a come queste esigenze vengano usate a volte per devastarli, vieni sommerso da un senso di rabbia che non trova sfogo, che diventa insostenibile.
Ma che cazzo di gente c'è a questo mondo?

giovedì 1 maggio 2008

There's a power in the union


Più che un affermazione, la frase del titolo è un auspicio, formulato adesso che vedo l'onda arrivare. Già, dopo l'antipolitica (che chissà perchè ha punito solo la sinistra) sta arrivando anche lo tsunami antisindacale. Casta, difensori solo di privilegi e privilegiati, maestri nel non decidere mai, fermi su posizioni vecchie di decenni, non rappresentativi dei nuovi mestieri e dei nuovi lavoratori. Il sindacato è tutto questo?

Può darsi. Anche se mi permetto di eccepire sui soggetti che formulano queste accuse. Parliamo di confindustria, che vuole buttare al cesso la contrattazione nazionale (con Cisl e Uil già convinte) o di Ichino che non vede i sei morti al giorno di media nelle imprese italiane, ma focalizza a dieci decimi la scarsa produttività e l'indecisionismo sindacale.

Il problema c'è, inutile negarlo. La metà dei cinque milioni e mezzo di iscritti che ha la Cgil sono pensionati. I giovani (under 30) non si appassionano all'attività sindacale, ormai siamo quasi più attraenti per la miriade di servizi che offriamo (Caaf, Pensioni, Uffici vertenze) che per la difesa degli interessi dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Se continua così, si farà la fine dei dinosauri o si diventa esclusivamente un centro servizi.

Eppure non posso fare a meno di pensare che oggi del sindacato c'è bisogno forse più di ieri, e che chi mette in discussione questo principio sia profondamente in malafede o interessato a dividere, disarmare, indebolire i lavoratori, regionalizzare i diritti, dare e togliere a piacimento degli imprenditori, approfittando della fase storica che stiamo attraversando.

In questi momenti mi faccio forza e mi inorgoglisco anche ascoltando questo pezzo, un pò retorico, ma sempre emozionante, di Billy Bragg:


There is power in a factory, power in the land
Power in the hands of a worker
But it all amounts to nothing if together we don't stand
There is power in a Union


Now the lessons of the past were all learned with workers' blood
The mistakes of the bosses we must pay for
From the cities and the farmlands to trenches full of mud
War has always been the bosses' way, sir


The Union forever defending our rights
Down with the blackleg, all workers unite
With our brothers and out sisters from many far off lands
There is power in a Union


Now I long for the morning that they realise
Brutality and unjust laws can not defeat us
But who'll defend the workers who cannot organise
When the bosses send their lackies out to cheat us?


Money speaks for money, the Devil for his own
Who comes to speak for the skin and the bone
What a comfort to the widow, a light to the child
There is power in a Union


The Union forever defending our rights
Down with the blackleg, all workers unite
With our brothers and out sisters from many far off lands
There is power in a Union.