giovedì 28 febbraio 2013

MFT, febbraio 2013

MUSICA

E' un buon periodo, poco dispersivo e foriero di uscite interessanti. Sto riuscendo a concentrarmi su una manciata di titoli, cosa che ultimamente avveniva di rado. I Saxon, il per me attesissimo ritorno dei Mavericks, la scoperta Bachi da Pietra, l'entusiasmante rispolvero di Dr John (veicolato dalla visione di Treme).

Saxon, Sacrifice
Bachi da Pietra, Quintale
The Mavericks, In time
Dr John, Gumbo
Son Volt, Honky tonk
Fabri Fibra, Guerra e pace
Nick Cave, Push the night away
Graham Parker, Ultimate collection
Louis Armstrong, The Hot Five and Hot Seven recordings

VISIONI

Treme mi ha letteralmente conquistato, The Walking Dead lo seguo invece ormai esclusivamente per forza d'inerzia.

Treme
The Walking Dead, stagione tre


LETTURE

Ero partito forte con il romanzo di Genna (duecento pagine in pochi giorni) ma ora sono in una fase di stanca. Ho approcciato anche Come stare soli di Jonathan Franzen, ma è prematuro sostenere che lo stia leggendo.

Giuseppe Genna, Teste

mercoledì 27 febbraio 2013

Post election blues (nel senso di tristezza post elettorale)

Ero preoccupato, sì. Ma in qualche modo le mie perplessità sulla campagna elettorale del pidì e sulla rimonta di Berlusconi erano tentativi di esorcizzare le mie più cupe paure rispetto ad una contesa che ci vedeva favoriti. Adesso che i miei peggiori timori si sono realizzati, in una forma addirittura più spaventosa di quella preventivabile, non voglio nascondermi o fingere distacco, indifferenza. A differenza dell'amico Filippo, più che incazzato sono amareggiato, disilluso, frastornato, attonito. Mi sento impotente verso quanti, in Lombardia (la mia regione), sono tornati a dare la preferenza alla coalizione che per vent'anni è stata rappresentata in maniera monarchica da Formigoni, scegliendo il candidato del partito del Trota, dell'Umberto e del Belsito.
Vedo Berlusconi e Maroni festeggiare e mi sento sconfitto nel profondo. Assisto inerme alla massiccia calata del 5 Stelle nonostante nessuno di quelli che l'ha votato (e, a differenza delle preferenze al Cav., qui la scelta è stata esplicita, quasi urlata da parte di diversi amici/conoscenti/colleghi) ne conosca i candidati o perlomeno, non dico il programma, ma l'orientamento politico/strategico. Hanno vinto per il motto "mandiamoli tutti a casa". Ok. E adesso? Boh! Voteranno "legge per legge", come se il parlamento fosse una riunione di condominio.
Critiche al centro sinistra ne ho espresse tante e oggi non mi va di infierire. Ribadisco il concetto, errori ne sono stati sicuramente fatti, ma bisogna anche contestualizzare lo scenario: l'Italia, con la mezza dozzina di partiti di sinistra (senza prefisso) che faticano ad arrivare al 3%, non è più (se mai lo è stato) un Paese che premia le politiche derivate da P.C.I. e P.S.I. 
A noi, ex fascisti ed ex-democristiani, oggi ce piace chi urla di più e/o chi la spara più grossa mentre ti dà di gomito e ti fa l'occhiolino. In Germania trent'anni dopo aver copiato una tesi si dimette un ministro, qui gli daremmo un premio alla furbizia.Tutto nella norma, di cosa mi stupisco?
Mi sovviene un'ultima, inutile, considerazione. Ma com'è che quando favoriscono la coalizione di centro-sinistra, i sondaggi e gli exit/instant poll sono sempre sbagliati?

lunedì 25 febbraio 2013

Saxon, Sacrifice (2013)


Beh, a proposito di irriducibili. I Saxon, tra gli eroi della NWOBHM, sono ancora qui e giungono in buona salute (al netto di doppi menti, hair extension e panze) al ventesimo album in trentaquattro anni di carriera. Anzi, con tre lavori dal 2009 ad oggi, si può forse azzardare l'ipotesi di una nuova (ennesima) giovinezza.
Sacrifice, a differenza del precedente, pur buono, Call to arms, ha in più dalla sua una maggiore durezza nei suoni, una compattezza stilistica complessiva ed una coerenza di tutto rispetto, con l'ugula del sessantaduenne leader Peter "Biff" Byford (unico superstite dei golden years, insieme al chitarrista Paul Quinn) che sembra non aver perso un grammo del suo smalto.

I dubbi sull'opportunità della band di calcare ancore le assi dei palcoscenici vengono spazzati subito via, all'irrompere della title track (anticipata da un maestoso intro strumentale che vedrei bene a fare da sottofondo alle immagini di Game of thrones). Il sound è heavy, la sezione ritmica (Glocker/Carter) pesta giù duro, il ritornello fa scattare all'istante il singalong (sì, il pirla che avete incrociato in auto che sbraitava SA-CRI-FAI-S'! mentre faceva il gesto delle corna ero io). Come d'abitudine consolidata, le prime tracce, Made in Belfast e Warriors of the road, esigono l'immediata attenzione dell'ascoltatore, ma anche Stand up and fight e la conclusiva Standing in a queue hanno il gusto delle composizioni tradizionali del brand ed è facile prevedere per esse un'ottima tenuta live. I testi come consuetudine narrano di battaglie, quelle epiche sui campi di guerra ma anche quelle del vivere quotidiano, celebrano l'orgoglio per questa musica e per quanti continuano a proporla a dispetto delle mode. 

La band si è lasciata (opportunamente, se volete il mio parere) alla spalle certe divagazioni tra l'epic e il power metal che si erano affacciate in Labyrinth, concentrandosi su ciò che sa fare meglio. Vale a dire heavy metal senza prefissi fighi o contaminazioni. Per non sbagliare Byford e sodali non hanno infilato nella tracklist nemmeno il canonico pezzo lento, l'unico episodio nel quale il tiro rallenta un pò è il midtempo Walking in the steel. 

Sacrifice è un album che sicuramente lascerà in bocca il dolce sapore dell'ambrosia ai fan del monicker inglese e dell'heavy metal classico.

Il 16 giugno la band sarà a Milano, ai Magazzini Generali.

7,5/10

sabato 23 febbraio 2013

Chronicles 6

Nonostante questa sia stata una settimana di super lavoro, nella quale si può dire che sia tornato a casa solo per dormire, un suo picco di grandiosa soddisfazione l'ha avuto. Mentre tutto andava a rotoli infatti, lunedì finalmente ho vinto la mia prima partita di calcetto, segnando anche una valanga di gol,  dopo mesi di sconfitte (o al massimo pareggi, che nel calcio a cinque sono cosa rara) di fila. Son cose eh.


Vabè, domani si vota, e l'altro giorno mi è tornata di colpo in mente l'intensità con la quale vivevo le campagne elettorale fino a quindici-venti anni fa. Una tensione quasi da ultrà calcistico già da spettatore delle tribune politiche, ben riassunta dalla nota scena del film Aprile di Nanni Moretti, nella quale il regista, assistendo ad un dibattito televisivo con D'Alema, chiede al leader del PDS di "dire qualcosa di sinistra". Mi ricordo feroci litigate, discussioni infinite con gli amici. Mi ricordo che noi eravamo i buoni e tutti gli altri i cattivi. Oggi non seguo più i dibattiti politici in tv, m'informo blandamente sulla polemica del giorno e non m'aspetto nulla di eccezionale dall'ipotetico governo di quella che dovrebbe essere la mia parte politica. Su una cosa però conservo lo stesso e identico entusiasmo dei diciotto anni: l'andare a votare. A prescindere dalla scarsa convinzione con la quale appongo la mia croce sulla scheda, è una cosa che mi dà gioia, mi appaga, m'illumina. In questo sono totalmente d'accordo con Giorgio Gaber.

Le elezioni

Generalmente mi ricordo / una domenica di sole / una giornata molto bella / un'aria già primaverile 

in cui ti senti più pulito / anche la strada è più pulita / senza schiamazzi e senza suoni 

chissà perché non piove mai / quando ci sono le elezioni. 

Una curiosa sensazione / che rassomiglia un po' a un esame / di cui non senti la paura /ma una dolcissima emozione, 

e poi la gente per la strada / li vedi tutti più educati / sembrano anche un po' più buoni 

ed è più bella anche la scuola / quando ci sono le elezioni. 

Persino nei carabinieri / c'è un'aria più rassicurante / ma mi ci vuole un certo sforzo 
per presentarmi con coraggio / c'è un gran silenzio nel mio seggio 

un senso d'ordine e di pulizia / Democrazia! 

Mi danno in mano un paio di schede / e una bellissima matita / lunga, sottile, marroncina, 
perfettamente temperata 

e vado verso la cabina / volutamente disinvolto / per non tradire le emozioni 

e faccio un segno sul mio segno / come son giuste le elezioni. 

È proprio vero che fa bene / un po' di partecipazione / con cura piego le due schede 
e guardo ancora la matita / così perfetta è temperata... 

io quasi quasi mela porto via / Democrazia!

venerdì 22 febbraio 2013

Chiedi chi erano i Big Country

Pur adorandoli, so perfettamente che i Big Country, anche nel momento del loro massimo splendore (1983/1986), non sono mai stati esattamente una band di prima fascia.
Da quando poi, nel dicembre del 2001, il loro leader Stuart Adamson ha trovato definitivo conforto dai suoi demoni personali in una corda appesa ad una trave, in un resort ad Honolulu, il gruppo ha definitivamente perso ogni significato. 
Nonostante questo, nel 2007 prima e nel 2010/11 poi, i superstiti della formazione originale hanno ripreso l'attività live, confidando in uno zoccolo duro di affezionati che gli permettesse di vivacchiare con la musica invece di andare a zappare la dura terra scozzese.
Oggi scopro che la band (che ormai rispetto alla composizione originale conta il solo Bruce Watson) sta per pubblicare un nuovo album (The journey, atteso per aprile) a quattordici anni dall'ultima release, e che nell'ovvio tour che lo promuoverà, il 28 maggio farà tappa al Tunnel di Milano. Alla voce, in sostituzione del povero Adamson, un altro reduce del glorioso rock scozzese degli ottanta: Mike Peters degli Alarm.
Ora, secondo voi, l'assoluta consapevolezza di trovarmi di fronte ad una cover band di ultracinquantenni (verosimilmente) alcolizzati impedirà al mio entusiasmo adolescenziale di presenziare all'evento?

giovedì 21 febbraio 2013

80 minuti di The Avett Brothers

Ho scoperto la band dei fratelli Scott e Seth Avett solo l'anno scorso, ma è stato, come si dice in questi casi, un vero e proprio colpo di fulmine. Ancora più grande è stata la mia sorpresa nel verificare che il gruppo della North Carolina fosse all'attivo da una decina di anni e che tra EP e full lenght avesse già rilasciato una decina di lavori. 
Dovevo recuperare il terreno perso e voleva anche farlo in fretta. 
Cosa poteva esserci di meglio dunque di una folta playlist antologica degli Avette Brothers pre-The carpenter
Niente. Appunto.

1) Talk on indolence
2) Die die die
3) Kind of in love
4) I and i love you
5) Pretty girl from Matthews
6) January wedding
7) Love like the movies
8) Shame
9) Murder in the city
10) Gimmeakiss
11) Paranoia in B flat major
12) Distraction #74
13) The weight of lies
14) My losing bet
15) Do you love him
16) I killed Sally's lover
17) Kick drum heart
18) Laundry room
19) Slight figure of speech
20) The fall
21) Pretty girl from San Diego
22) Go to sleep
23) The day Marvin Gaye died


martedì 19 febbraio 2013

You are here

Avete già deciso cosa votare domenica e lunedì? Ne siete sicuri? Sicuri sicuri? Allora perché non vi mettete alla prova su voisietequi.it ? Il sito propone un giochino veloce e non impegnativo nel quale attraverso la risposta a 25 domande si viene collocati nella galassia politica italiana.
L' amico che me l'ha segnalato mi ha riferito di aver avuto risposte spiazzanti rispetto al proprio orientamento partitico.
Beh, non è proprio il mio caso...



lunedì 18 febbraio 2013

Eels, Wonderful, glorious (2013)


Negli ultimi anni la domanda ricorrente a traino di ogni uscita discografica di Mark Oliver Everett è: stavolta di quale umore sarà? Già perchè nell'ultimo trittico Hombre Lobo/ End Times / Tomorrow morning lo spettro dei moods è stato attraversato si può dire nella sua interezza, con le canzoni a raccontare uno stato d'animo, dall'allupato al depresso,  che si sviluppava (pare) parallelamente alla parabola,dall'inizio alla conclusione, di una relazione d'amore dell'artista. E oggi dunque, a che punto stiamo?

Wonderful, glorious ci consegna un Mr E in forma e sopratutto rasserenato, che si diverte con il suo inconfondibile stile  in maniera leggera, quasi pop. Anche la risposta alla seconda delle FAQ è affermativa. Sì, ci sono gran belle canzoni dentro questa release. Bombs away, che apre il lavoro, è un pezzo che avrebbe potuto stare su Bone machine di Tom Waits, Kinda fuzzy, Peach blossom e Stick together sono spensierate chicche sixties, On the ropes, True original, I am building a shrine gli immancabili lenti della tradizione classica di Mr. E, mentre Open my present di certo non dispiacerebbe a Jack White.

Tutto okay quindi? Beh, più o meno. Perchè ora che ho approfondito la loro produzione, ho capito quale sia il mio personale problema con gli Eels. Devo prenderli a piccole dosi. Canzone per canzone li trovo ammalianti e irresistibili, dieci, dodici pezzi a fila (questo album ne conta tredici), alla lunga mi stancano. Il che significa che apprezzo molte delle tracce di Wonderful, glorious ma insomma, diciamo che per un pò sto a posto.

7/10


sabato 16 febbraio 2013

Chronicles 5

Sono il tipo di persona che può frequentare un bar per anni senza che i gestori si ricordino della sua faccia, cioè l'esatto opposto del tipo "Ciao Gianni, cosa prendi, il solito?". E' anche per questo che mi piaceva frequentare Patrizio. Lo portavo nel mio locale preferito a bere una cosa e nel giro di mezzora era già diventato il miglior confidente del barista oltre ad avere familiarizzato con tutti, al punto da fare impallidire non solo le mie relazioni, ma anche quelle della maggior parte degli avventori abituali. Certo, a volte rischiava le sberle, ma questa è un altra storia. 
Ad ogni modo, consapevole del mio potere di invisibilità, l'altra sera mi sono stupito quando la cassiera del supermercato, che da almeno un lustro mi vede tutte le sere alla stessa ora (le 19.30 circa) comprare pane e latte, ha alzato lo sguardo dai codici a barre e smesso di masticare la cicca per rivolgermi la parola. Stava osservando i titoli dei cd che avevo acquistato a tre euro dal cestone (De Andrè, Bjork, Dire Straits, Finardi) andando visibilmente con la mente al passato, quando la sua vita era più facile e ancora si emozionava con una canzone. Poi mi ha fatto l'occhiolino e mi ha detto di aspettarla fuori che da lì a poco avrebbe smontato. Leggermente incredulo e un pò barzotto mi sono diretto verso l'uscita.

(NDR: Attenzione, un'affermazione,e solo una, contenuta in questo post è falsa. A chi l'indovina in premio un litro di latte)

venerdì 15 febbraio 2013

80 minuti di Black Sabbath (Ozzy years), part 2

Vi dovevo la seconda parte della playlist della Ozzy era dei Black Sabbath. Dentro ci sono ancora grandissimi pezzi in pieno stile doom, assieme a inaspettati momenti prog e addirittura pop-metal. Comunque sia è sempre un bel sentire.

1) After forever
2) Behind the wall of sound
3) Never say die!
4) Orchid
5) Lord of this world
6) Am i going insane
7) Tomorrow's dream
8) Sympton of the universe
9) The wizard
10) Changes
11) Sweat leaf
12) Rock and roll doctor
13) Evil woman
14) Fluff
15) Supernaut
16) Planet caravan
17) Sabbra cadabra
18) Laguna sunrise



mercoledì 13 febbraio 2013

Breaking Bad, season 3


Per quanto Breaking Bad mi abbia immediatamente fidelizzato, non posso negare che all'inizio della terza stagione mi sia trovato improvvisamente vittima della sindrome Occhi del cuore. I fans di Boris sanno di cosa si tratta, per gli altri spiegherò brevemente. In quel serial si faceva satira sulle tremende soap italiane attraverso i dietro le quinte di una di fantasia (gli Occhi del cuore, perlappunto). Mentre di norma i suggerimenti del regista Renè agli attori erano di assumere espressioni basite per sostenere l'intreccio (oddio, l'intreccio) della trama (oddio, la trama), nell'ultima puntata, dove tutto veniva risolto (oddio, risolto), i visi dovevano adattarsi al clima ed assumere dunque un'espressione di simulata comprensione degli eventi.
Ecco, avendo lasciato Skyler, la moglie di Walt, del tutto attonita e totalmente all'oscuro delle attività del marito, m'è preso un colpo nel ritrovarla alla prima puntata della nuova stagione con espressione di simulata comprensione dire al marito che sa del suo coinvolgimento nel campo della droga e  della montagna di soldi nascosta nel basement.
Superato lo spiazzamento e proseguendo con la visione, ho capito la ragione di questa brusca scelta degli autori: provocare la rottura delle dinamiche narrative delle prime due stagioni. Rimosso il segreto di Walt (uno dei segreti, senza dubbio il più importante) ed accantonato il tema della malattia (il cancro è in regressione e White sta bene) si ha tra le mani un nuovo inizio. E la cosa, indubbiamente, funziona.
Perché Skyler diventa più stronza e Walter, dopo uno sbandamento iniziale, più badass. Jesse, uscito da un periodo in rehab torna la solita inaffidabile testa di cazzo; Hank chiude definitivamente la porta alla promozione a El Paso e la moglie Marie (da highlights la scena dell'handjob in ospedale) dimostra di non essere solo una gatta morta; il cartello messicano della droga deflagra nella vicenda attraverso due terrificanti sicari e Saul Goodman ha un sussulto di inaspettato coraggio, proteggendo Jesse.
Capitolo caratteristi. Saluto con piacere la presenza di Jonathan Banks, faccia malinconica e molti ruoli da duro in diversi film del passato, qui utilizzato per un ruolo...da duro (investigatore privato/tuttofare al soldo del boss Gus). Altro viso noto è quello di David Costabile, nei panni del chimico Gayle, che, ad intermittenza, coadiuva in cucina Walter, e che per una bizzarra intuizione degli sceneggiatori ad un certo punto si mette a canticchiare Crapa Pelata del quartetto Cetra, un pezzo dello swing italiano degli anni quaranta (con il ritornello in dialetto milanese). Aumenta anche lo spazio di Giancarlo Esposito (a dispetto del nome un nero che potrebbe interpretare Obama, qui nei panni del boss Gustavo Fring) mentre è sempre troppo poco quello dedicato all'irresistibile avvocato Saul, interpretato da Bob Odenkirk.
Cliffhanger finale come dio comanda.
Faccio spazio a qualche altra serie accumulata nel tempo e poi mi tuffo nella stagione quattro e cinque (prima parte).

martedì 12 febbraio 2013

Si cambia!

Nuova intestazione per il blog, realizzata in esclusiva per Bottle of Smoke (ci ho messo abbastanza enfasi?) dall'amico Filippo
L'altra ultimamente aggiungeva mestizia ad un periodo già di per sè tutt'altro che esaltante...

lunedì 11 febbraio 2013

Ben Harper with Charles Musselwhite, Get up! (2013)




All'inizio suonava perlopiù seduto. Su una sedia che somigliava ad un trono tribale. Sapeva toccare corde profonde, comunicare empatia, suggestioni, intensità. Nella sua musica convivevano le eredità musicali di Jimi Hendrix e Bob Marley, Marvin Gaye e Robert Johnson, Led Zeppelin e, a tratti, il folk intimista di Nick Drake in un armonia e un equilibrio irripetibile. E infatti, dopo lo splendido Live from Mars, compendio ideale del primo folgorante decennio di carriera e disco dal vivo tra i più rimarchevoli dell'ultimo quarto di secolo, sono arrivate la svolta ruock che l'ha portato ad esibirsi assecondando clichè che vogliono la star in piedi davanti al microfono con la chitarra al collo come un Lenny Kravitz qualunque, e la lenta ma inarrestabile, fase calante. Della mezza dozzina di dischi incisi dal 2003 ad oggi si salva giusto qualche sporadica traccia e la collaborazione con il gruppo gospel Blind Boys of Alabama, a dimostrare quanto, sebbene l'ispirazione di Ben fosse in secca, l'amore per le radici della musica continuasse invece a bruciare.

Allo stesso modo è oggi una boccata d'ossigeno Get up! ultimo lavoro in condivisione con la settantenne leggenda del rock-blues Charles Musselwhite. Un disco di blues prevalentemente acustico che evidenzia passione e caparbietà nel portare avanti una proposta musicale lontana da clamori e classifiche.
L'album è composto da dieci tracce, nelle quali funziona bene l'amalgama tra voce, testi e chitarra di Harper e attitudine di Musselwhite, la cui armonica conferisce tensione ed elettricità al progetto. Si comincia con Don't look twice che subito ci scaraventa nel mood  dell'opera con il suo incedere rilassato da delta del Mississippi, ma è qualche traccia più avanti che si entra veramente nel vivo. E lo si fa,inaspettatamente, con un cambio di marcia. We can't end this way , è infatti un pezzo arioso dalle evidenti reminiscenze gospel che non può non rimandare immediatamente alla collaborazione con i Blind Boys of Alabama. A seguire il perentorio ed irresistibile incedere di I don't believe a word you say (tributone a Muddy Waters) e la meravigliosa You found another lover (I lost another friend) che ha dignità tale da meritarsi un posto tra le migliori produzioni di Ben. Si torna poi al filo conduttore musicale della collaborazione con Blood side out, la title track e All that matters now, ma resta il precedente il trittico di brani il meglio dell'opera, anche se è il lotto che più si discosta (insieme a She got kick, dalle parti di B.B. King) dallo stile complessivo del lavoro. Certo, una contraddizione, ma che non toglie significato al più che positivo giudizio finale.

7,5/10


sabato 9 febbraio 2013

Chronicles 4

A volte parlo da solo. In genere la sera, quando sono stanco e mollo l'ancoraggio del normale autocontrollo. In genere mi sembra di farlo con discrezione, ma evidentemente non sempre è così, visto quanto è successo l'altro giorno. Beh, in effetti più che a parlare da solo stavo proprio intrattenendo un'appassionate conversazione, senza dare eccessiva importanza al  fatto che l'interlocutore non fosse davanti a me ma all'interno della mia testa. Vabè, quando si discorre piacevolmente, il tempo passa e non è che ti metti troppo a sottilizzare. Comunque. La cosa è successa davanti allo specchio del bagno, mentre mi apprestavo a radermi, e deve essere andata avanti per un pò, se è vero che ad un certo punto è arrivata la mia sweet half (che probabilmente era appostata da un pezzo fuori dalla porta ad origliare) e mi ha chiesto (oddio, più che chiedere ha sottolineato l'evidenza) "ma stai parlando da solo?!?" .
A quel punto, nonostante il mio lavoro mi porti ad improvvisare e, qualche volta, diciamo, a piegare la realtà alle esigenze del momento, preso alla sprovvista, ho dovuto ammettere non senza imbarazzo che sì, stavo parlando da solo.
Al che la sweet half se n'è andata senza proferire verbo nonostante potessi sentire anche a distanza di corridoio i suoi ingranaggi mentali che facevano mumble mumble.
E io ho perso il filo dei miei pensieri.

giovedì 7 febbraio 2013

Ce la meritiamo la casta. Ce lo meritiamo Berlusconi

Ne ho abbastanza di tutte queste lamentele sui privilegi della cosiddetta casta. La cassiera del supermarket, i lavoratori, gli amici, il gommista, l'addetto al casello della tangenziale, il dirigente d'azienda, il vicino di casa, tutti a blaterare di quanto sia indecente pagarsi la Nutella col finanziamento pubblico. Ma basta davvero, anche all'ipocrisia c'è un limite. Vi siete mai chiesti perchè in Italia avvengono cose e si avvicendano figuri (i Grillo, i Berlusconi, anche l'anomalia dei Monti vah) che mai sarebbero capitati in Francia, Germania, Spagna, Inghilterra, Svezia o negli States? 
Solo ed esclusivamente perchè noi siamo italiani e loro francesi, tedeschi, spagnoli, inglesi, svedesi o americani,dico io.
Il punto è tutto lì. A noi non ce ne frega un cazzo della collettività, dello Stato. Ognuno di noi rappresenta il proprio stato privato con le sue norme, che ruotano sempre attorno all'approssimativo concetto di eludere grandi e piccole regole, che siano non pagare le tasse, posteggiare sul posto riservato ai disabili, o passarti davanti nella fila alle poste.
E' per questo che Berlusconi, che di questo assioma è il migliore rappresentane su piazza, può risalire di dieci, venti punti nei sondaggi promettendo "la qualunque" (a proposito, che dite, me lo finisce di pagare il mutuo se glielo chiedo?) mentre l'impegno del più grande partito italiano ad investire sette miliardi nelle scuole disastrate dove ogni santo giorno mandiamo i nostri figli e negli ospedali fatiscenti dove tentiamo di curarci, non viene preso seriamente. 
Lasciamo perdere, è una partita persa. Continuiamo a farci gli affari nostri, e lo stesso faranno i nostri rappresentanti in parlamento. E però, quantomeno, smettiamo di lamentarci. 
Personalmente, nonostante questo post, prometto di provarci.

mercoledì 6 febbraio 2013

Steve Earle, Non uscirò vivo da questo mondo



Dopo una raccolta di racconti il cantautore folk (e country e rock) della Virginia Steve Earle giunge al primo romanzo e lo fa continuando a concedere al lettore molto di se stesso, in maniera meno esplicita rispetto a quanto fatto nel racconto che dava il titolo alla suo esordio letterario (Le rose della colpa, del 2005), ma continuando ad usare elementi e situazioni che conosce bene: la tossicodipendenza, le periferie degradate del sud degli states dove convivono disperazione e grande umanità, le lotte civili e, ovviamente, la musica, già a partire dal titolo del libro.

Non uscirò vivo da questo mondo (I'll never get out of this world alive) prende infatti spunto da una delle canzoni più note di Hank Williams, che raggiunse il successo, ironia della sorte, proprio dopo il prematuro decesso del re del country, che resta uno degli artisti più amati di sempre negli states. Ed è proprio Hank Williams, anche se in forma di fantasma, che, nell'anno di grazia 1963, tormenta le giornate e le notti di Doc, suo medico di fiducia ai tempi del massimo successo che ora, anche a causa della sua dipendenza dall'eroina, è caduto in disgrazia e si è rifugiato nella periferia malfamata di San Antonio. Il posto si chiama South Presa e lì il dottore si paga la dipendenza esercitando illegalmente la professione con ciò che passa il convento: cioè perlopiù aborti su prostitute e cuciture su ferite da armi da taglio o  da fuoco. Così, tra delinquenti, tossici e puttane tutto fila a South Presa, finchè nello studio improvvisato di Doc si presenta Graciela, una ragazzina messicana spaurita che deve interrompere la sua gravidanza.

Adotto un termine discografico per dire che non tutto va per il verso giusto nel primo full-lenght letterario di Earle. L'opera procede a strappi, a fasi coinvolgenti si alternano momenti di stanca e passaggi a vuoto. Steve dà probabilmente il meglio di se quando descrive il paesaggio dove si svolge gran parte della storia, nel tratteggiare lo stato di tossico di Doc (con una perizia che solo un drogato può conoscere così dettagliatamente), nel collegare le vicende di fantasia a quelle reali (come l'omicidio di J.F.Kennedy), nella denuncia del razzismo strisciante della Chiesa e nel portare avanti battaglie civili scomode, come quella sull'aborto che da sempre è tema di feroci conflitti in USA. E anche l'idea di utilizzare nel romanzo l'irascibile fantasma di Hank Williams era buona ma poteva essere gestita e sviluppata meglio, magari approfondendo maggiormente i rapporti passati tra il countryman e il dottore, per evitare la sensazione della furbata mirata ad attirare lettori (sopratutto in patria).

Analogamente ad altri, anche prestigiosi, musicisti, il nome di Steve Earle continua a stare meglio sulla copertina di un disco rispetto a quella di un libro, seppure nella sua opera a tratti emerga del talento e nel complesso il lavoro risulti tutt'altro che banale.


lunedì 4 febbraio 2013

Ghost, Opus eponymous (2010)


Mi ha sempre fatto sorridere il termine rock satanico, perchè invece che immagini terrificanti mi porta alla mente i servizi sulla ggioventù bruciata trasmessi da La vita in diretta o Studio Aperto, i moniti bacchettoni di Giovannardi o le strepitose ironie musicali degli Elii.
Figurarsi quindi se ho mai prestato orecchio a quanti veicolavano l'adorazione per satana (maiuscolo o minuscolo? Boh!) attraverso il cosiddetto black metal.
Del tutto privo di esperienza specifica, sono quindi arrivato agli svedesi Ghost spinto dal chiacchericcio attorno alla band, che con un solo album, questo Opus Eponymous, uscito peraltro tre anni fa, e un tour pressochè ininterrotto (da soli, nel festival o a supporto di grandi nomi della scena metal) ha riscosso un notevole interesse tra fan, critica e industria musicale.

Da un certo punto di vista le manifestazioni di interesse scatenate dal gruppo appaiono sproporzionate rispetto all'offerta musicale dei quattro, che si limitano a riproporre formule già viste e sentite,a partire dal travestitismo, elemento che sembrava aver fatto il suo tempo, ma che viene rilanciato dai Ghost quale cardine della loro proposta, attraverso un rimando al passato che cita le più note masked band della storia: i Kiss (per il segreto delle identità pubbliche dei musicisti), Alice Cooper (per la teatralità), i Mercyful Fate e King Diamond (per il connubio stile musicale/testi).  Gli svedesi si presentano infatti sul palco con il front-line vestito dal papa-zombie che campeggia sulla cover (Papa Emeritus) e gli altri componenti agghindati da monaci incappucciati. 

La musica che propongono trae ispirazione da certo hard-rock settanta-ottanta coi suoni puliti e la voce cristallina, piuttosto in contraddizione quindi con i testi "satanici" che propugnano che prevederebbero growling e  oscuri rumorismi o rdf. Il lato blasfemo della band (liriche a parte) si limita insomma a qualche break di organo o ai cori in latino.
In buona sostanza pezzi come Con clavi con Dio o Ritual penso possano piacere a chiunque apprezzi il gran incedere delle sezione ritmica, la chitarra che macina mono-riffoni, le aperture poderose dei refrain tipiche del rock duro d'annata. Stand by him potrebbe addirittura essere considerato un pezzo pop-rock, non fosse per le liriche e per qualche inserimento della doppia cassa e dell'organo.

Il disco è piuttosto breve (trentacinque minuti che arrivano a sfiorare i quaranta nell'edizione giapponese che include la cover di Here comes the sun dei Beatles) e consta di nove pezzi (con due strumentali in apertura e chiusura del lavoro). 
Personalmente, al netto di tutte le menate sataniche, che considero come ho sempre fatto un elemento sensazionalistico per far parlare di band che altrimenti non si cagherebbe nessuno, ho apprezzato il dischetto, anche se aspetterei il secondo lavoro (Infestissumam, annunciato per la primavera di quest'anno) per capire se ci sia vita oltre al make up e al citazionismo di Papa Emeritus e soci.




sabato 2 febbraio 2013

Chronicles 3

Torno da una due giorni di lavoro a Roma, improduttiva dal punto di vista lavorativo ma impreziosita da un tempo magnificamente primaverile, e subito piombo nella classica giornata fredda e piovosa di queste parti. Tutto sommato non è che c'hanno poi tutti 'sti torti gli amici romani a pijarci per il culo sui posti in cui viviamo noi rispetto ai loro.

Domani sarà una giornata speciale. Mio padre compirà ottanta anni e per l'occasione siamo riusciti a riunire (quasi) tutti i suoi fratelli sparsi per l'Italia per un pranzo celebrativo con pochi precedenti nella storia recente della nostra famiglia.
Ma, a proposito di pranzi e cene, come anticipato nelle ultime chronicles, sabato scorso sono stato fuori con gli amici storici, che ormai vedo giusto uno volta all'anno, in queste occasioni. 
Ultimamente queste uscite mi lasciano in bocca il sapore sgradevole di un evento poco spontaneo, quasi dovuto, che si traduce in una conversazione  che fatica ad ingranare e che contempla molte pause. Esaurita da tempo tutta  l'anedottistica sulle esperienze di gioventù, oggi ci si riduce a rifiutare, buttandola in burla, la proposta di uno che si offre di venderti sottobanco le note pastigliette blu o di un altro che ti mostra sullo smartphone il collegamento ad un sito di escort con tariffe, numero di telefono e indicazioni sul preavviso massimo per contattarle, orientando con un "vedi, basta chiamarla anche mezz'ora prima eh..." un possibile epilogo della serata. La cosa non è sconvolgente in se stessa, siamo uomini di mondo (e abbiamo fatto il militare a Cuneo, aggiungerebbe Totò) ma è straniante trovarsi davanti a persone che conosci da quando si frequentava l'oratorio e  con le quali hai passato più di un lustro di vita e che ora ti appaiono come dei perfetti estranei. Magari il problema sei tu, vallo a capire.