domenica 31 marzo 2013

(Easter) Chronicles

Scherzando, ma neanche troppo, ho confessato agli amici che non credevo di arrivare indenne a questo fine settimana. E il bello è che da qui in avanti sarà sempre peggio. Abbiamo davanti un periodo di tempo che va dai tre mesi all'anno e mezzo per definire il futuro della nostra azienda. Un orizzonte temporale risibile rispetto alle nostre aspettative di stabilità occupazionale, alla scadenza del mio mutuo e alla storia dell'impresa (sessanta e rotti anni di vita), ma insostenibile se penso che probabilmente lo sconterò a questi livelli di stress e fatica. 
E poi minchia, neanche a casa posso stare tranquillo (cioè in posizione Andy Capp sul divano). Ma avete la minima idea di quanti compiti hanno dato a Stefano per meno di una settimana di vacanza? Una roba folle. Dovrebbe (dovremmo) passare tutti questi giorni sopra i libri. E parliamo di terza elementare eh! Ma esiste qualcuno in questo mondo crudele che mi vuole ancora bene?

Seh, vabbè, buona Pasqua a tutti.

venerdì 29 marzo 2013

Keep your eye on the prize


Il Liebster Award nasce per far conoscere meglio alcuni dei blog che si seguono con più costanza, ed è riservato a quelli con meno di 200 followers, in modo da portare alla luce nomi che non sono i soliti noti. 
L'amico Alessandro, co-intestatario del blog lafolle+jumbolo+alessio mi ha fatto l'immeritato onore di una nomination e l'onere di uno sbattimento colossale per rispettare le regole del premio, che consistono nel:

1) ringraziare chi ha assegnato il premio citandolo nel post 

2) rispondere alle undici domande poste dal blog che mi ha premiato
3) scrivere undici cose su di me
4) premiare undici blog che hanno meno di 200 followers
5) formulare altre undici domande a cui dovranno rispondere gli altri blogger
6) informare i blog del premio.



1) La più facile. Grazie ad Ale, non solo per la menzione ma anche per essere stato la mia prima fonte di ispirazione blogghistica e il primo riferimento con il quale continuo tuttora a confrontarmi, tentando faticosamente di tenere il suo passo.


2) le undici domande di jumbolo



1)viaggio mai fatto ma molto desiderato 

Non si tratta di un viaggio esotico, impervio o in paesi irraggiungibili. E' da quando ho letto Sostiene Pereira che vorrei vedere Lisbona. Una roba tutto sommato a portata di mano, ma mai fatta.

2)libro preferito 
American tabloid di James Ellroy

3)citta preferita (italiana o straniera) 
Boh! San Antonio, Texas probabilmente.

4)film preferito 
Uno solo è dura, Ale. Il Padrino parte seconda, probabilmente.

5)squadra del cuore (una, di qualsiasi sport) 
F.C. Inter

6)serie tv preferita 
The Shield

7)nazione dove vorresti espatriare 
Francia o Germania

8)pratica sessuale preferita
le solite cose, sono un tipo semplice

9)infradito o ciabatte a fascia? 
So di darti un dolore, ma a fascia

10)pizza o mandolino? 
Banjo

11)disco da portare sull'isola deserta   
In genere a questa domanda rispondo: "uno che non ho mai ascoltato", ma se proprio
devo, dico The river di Springsteen, non il mio preferito di Bruce, ma intanto è un doppio e poi lo considero un bigino delle tante sensibilità del boss

3) undici cose di me


1) mi sembra incredibile svolgere oggi un'attività per la quale spesso gli altri chiedono a me come risolvere i loro problemi, quando non sono mai stato capace di risolvere i miei
2) con il tempo sono diventato pigro da far schifo
3) soffro di multitasking, fatico a concentrarmi su una singola attività
4) potessi tornare indietro andrei a vivere da solo molto prima dei 28 anni
5) mi sveglio quasi sempre più stanco di quando mi sono coricato
6) probabilmente sto aspettando un qualche evento speciale che non arriverà più
7) non sono esattamente entusiasta di invecchiare
8) non ne avessi una fifa blu, mi sarebbe piaciuto provare almeno una volta ogni tipo di droga esistente
9) divento sempre più paranoico: ogni dolorino è un male incurabile
10) soffro il caldo, mi piacciono le stagioni adiacenti all'estate
11) non sono mai del tutto sincero quando parlo di me


4) i blog che premio. Avrei qualche domanda in proposito, tipo immagino di non poter nominare jumbolo, che ha premiato me, e ancora, come si devono comportare quei blogger che ricevono più di una segnalazione, ogni volta devono ripetere tutto l'ambaradam? Vabè, scusate...


1) Le sirene di titano

2) Suevele
3) DoppiaAzione
4) Let them know...how you feel
5) Exit strategy
6) Montecristo
7) Viaggiando (meno)
8) Heart of puppet
9) Come un killer sotto il sole
10) Il bicchiere della staffa
11) La caduta degli eroi

5) undici domande per i blogger nominati

1) se potesti tornare indietro nel tempo con ciò che sai ora, come impiegheresti questa esperienza?
2) con quale personaggio letterario/cinematografico ti identifichi?
3) qual'è il tuo peggior difetto (e non fate i furbi con risposte del tipo: "sono troppo buono/a, eh")?
4) cosa ti aspetti dagli altri?
5) perchè un blog nell'era di facebook e twitter?
6) da uno a dieci, che priorità dai nella tua giornata all'aggiornamento del blog?
7) da uno a dieci, quanto ti piaci?
8) l'evento che non ti sei mai perdonato di aver perso
9) il tuo disco più preferito
10) la sliding door più importante della tua vita è stata quella volta che...
11) chiediti se sei felice e datti una risposta

6) passo quest'infernale catena di san antonio agli altri...



We're on the highway to hell

Io ci provo a convincermi che uscirò indenne da tutti i casini dai quali sono sommerso, peccato che i segnali che continuo a registrare siano di natura inequivocabilmente opposta...



mercoledì 27 marzo 2013

MFT, marzo 2013

MUSICA

Aprile, almeno sulla carta, si profila mese fitto di uscite interessanti. Sono infatti previste le release dei nuovi album di Volbeat (Outlaw gentlemen & shady ladies); Steve Earle (The low highway); Ghost (Infestissumam) e Big Country (The journey), che sicuramente andranno a gonfiare la prossima playlist mensile. 
Negli ascolti seriali di marzo invece, caso raro, non compare alcun album del passato.

The Mavericks, In time
Hatebreed, The divinity of purpose
Ministri, Per un passato migliore
The Black Angels, Indigo meadow
Spin Doctors, If the river was whiskey
David Bowie, The next day
The James Hunter Six, Minute by minute
The Tossers, The Emerald city
Suicidal Tendencies, 13
Justin Timberlake, The 20/20 experience
Devendra Banhart, Mala
Old Man Markley, Down side up




VISIONI

Sono agli ultimi episodi della terza stagione del sempre avvincente The Wire e di quella stanca liturgia che è diventato The Walking Dead. Sulla mia tabella di marcia ci sarebbero poi in programmazione la quarta di Breaking Bad e la quinta di Sons of Anarchy, ma so perfettamente che l'avvento dell'attesissima nuova stagione (la terza, in programmazione USA dal 31 marzo) di Game of Thrones porrà tutto il resto in secondo piano. 



LETTURE

Sono arrivato a due terzi del libro e dovrebbe essere la volta buona per concludere Le teste di Giuseppe Genna. Come scritto un paio di post indietro, sfoglio anche Wild Thing di Stèfani. Complessivamente è uno di quei (lunghi) periodi nei quali il poco tempo libero lo distribuisco scarsamente sulla lettura.

lunedì 25 marzo 2013

The Mavericks, In time


Gente, io adoro i Mavericks. E lo faccio da un pezzo, precisamente dal 1994, anno in cui scoprii il pirotecnico country contenuto dentro il loro What a crying shame. Mi ci volle comunque poco per capire che gli steccati di un singolo genere stavano stretti a questi straordinari musicisti. Solo l'anno successivo infatti pubblicavano Music for all occasions che, pur senza rinnegare le loro radici ( il tex-mex al fulmicotone All you ever do is bring me down è ancora oggi un must dal vivo), cominciava a muovere i primi, decisi, passi verso il croonering e lo stile confidenziale anni cinquanta, certificato da pezzi quali  Foolish heart, Missing you, My secret flame e le cover di Blue Moon e Something stupid.
Ma è nel 1998 che il gruppo calerà l'asso. Trampoline allarga ulteriormente il raggio d'azione di Raul Malo e soci, andando a comprendere, oltre agli elementi musicali noti, anche i ritmi tropicali che scorrono nelle vene di alcuni componenti del gruppo, americani di origine cubana. Dopo quell'album si apre purtroppo un lungo periodo di inattività, nel quale Malo muovi i passi di una carriera solista soddisfacente (ad oggi sei dischi), che vede nel debutto di Today (2001) il suo picco. Nel 2003 esce un altro buon disco (self titledcon la vecchia ragione sociale  e poi il nulla. 
I Mavericks sembrano definitivamente andati. Così per fortuna non è, visto che a metà 2012 cominciano a circolare voci (concretizzate dalla release di un EP di cinque pezzi) di un comeback, e finalmente, a gennaio di quest'anno, esce In time, degnissimo e sospirato erede di Trampoline.

Proprio da quell'album del novantotto prende infatti le misure il nuovo disco, con quella magnifica contaminazione tra latin-soul, fisarmonica messicana, musica confidenziale, rock and roll, echi di Roy Orbison, elegantezze pop d'annata. In sintesi, grande mood e grandi canzoni. Il lavoro si apre con una trascinante tetralogia, Back in your arms again, Lies, Born to be blue e Come unto me (presente in coda anche in versione spanish con il titolo Ven hacia me). Basterebbe questo inizio folgorante a spazzare via qualunque dubbio sull'integrità della band: mambo, salsa e tex-mex al loro massimo splendore, il singer Malo che gigioneggia e i vari Paul Deakin, Robert Reynolds, Eddie Perez e Jerry Dale McFadden che gli vanno dietro ad occhi chiusi. Ci sarebbe poi da scrivere un post solo per le atmosfere che il combo sa creare con i pezzi lenti, da In others arms alla jazzata Forgive me passando per Amsterdam moon (la mia favorita), fino alla conclusiva gospeleggiante Call me when you get to heaven, i Mavericks non sbagliano una suggestione.
C'è tanta di quella roba dentro In time che non puoi permetterti distrazioni. Quando sembra che il disco abbia dato tutto ciò che doveva, dopo cioè averti fatto divertire, saltare, commuovere ed emozionare con i pezzi descritti (e senza dimenticare All over again) ecco che, in coda, la tracklist si incendia di nuovo con il Presley style di As long there's loving tonight e lo scatenato mambo di Dance in the moonlight.

Madonna santa quanto mi siete mancati. Mamma mia che disco!

9/10


sabato 23 marzo 2013

Chronicles 10

Diciamo che oggi vi va bene. Sì, perchè invece di lamentarmi della mia stanchezza psicofisica e delle pessime prospettive in ambito lavorativo, mi dilungherò su un episodio curioso appena accadutomi.
Come ho avuto modo di esternare qualche volta (l'ultima qui), sono un vecchio lettore della rivista Mucchio Selvaggio. Non un lettore fedelissimo, perchè fatto salvo abbonarmi per un paio di annate l'ho sempre acquistata a singhiozzo, ma insomma, mi considero ad essa molto affezionato.Fin da ragazzino ho vissuto infatti nel mito dei vari giornalisti di quella testata: Max Stèfani, Federico Guglielmi, Massimo Cotto, Daniela Amenta, Eddy Cilìa (solo per citarne una parte), che vedevo come Unici e Indiscussi Possessori della Verità Rock. 
Così è stata enorme la mia disillusione quando, un paio di anni fa, Stèfani (direttore/fondatore) ha lasciato il giornale e sono cominciati a volare gli stracci tra lui e il resto della redazione, Guglielmi in testa. Attraverso reciprochi scambi di accuse quotidianamente documentati sulla pagina Facebook di Max e sul forum del Mucchio, è stato ricostruito il pesantissimo clima redazionale degli ultimi gli ultimi anni, nei quali l'ex direttore e il resto della compagine hanno praticamente vissuto da separati in casa. Il ritratto che emergeva da parte degli attuali giornalisti del Mucchio riguardo Stèfani era davvero spietato. Una persona arrogante, poco preparata, che non sapeva scrivere e che spesso copiava integralmente i suoi articoli, che lasciava il lavoro agli altri mentre si faceva gli affari propri, che si era intascato un sacco di soldi dalla fatica altrui, che nell'ultimo periodo aveva impresso alla rivista una direzione (politico/anti-clericale) invisa a tutti. Stèfani dal canto suo ribatteva accusando la truppa di irriconoscenza, di complottismo, di nozionismo musicale fine a se stesso, di ipocrisia nei rapporti personali.
Così, quando il direttore transfugo pubblica Wild Thing, un'autobiografia che copre tutta la storia del suo Mucchio, sul forum della rivista (che seguo mio malgrado da lurker, visto che non ho mai avuto risposta alle mie richieste di affiliazione) si scatena il sarcasmo e la caccia agli errori grammaticali e/o alle copiature/citazioni non autorizzate che il libro contiene. La cosa va avanti per settimane (un utente si prende la briga di leggerlo e dichiara di aver contato un migliaio di refusi) e insomma, un pò perchè nel frattempo mi rendo conto che l'anima musicale della rivista è sempre stata Guglielmi (competenza, professionalità e passione mostruose) un pò perchè non avendo Facebook  non seguo le repliche dello Stèfani, mi convinco senza averlo mai nemmeno preso in mano, che il volume è un'autentica ciofeca da evitare come la peste (e il costo di €50 non incentiva certo a cambiare idea). 
Un paio di settimane fa l'ultimo episodio della lunga telenovela. Moltissimi utenti del forum della rivista, abbonati o come me ex abbonati al Mucchio denunciano di aver ricevuto una lettera (cartacea, non via e-mail) proprio da Stèfani, nella quale vengono invitati ad acquistare una delle ultime 300 copie di Wild Thing, a prezzo scontato ed autografate. La cosa è clamorosa e presumibilmente illegale. Dove ha preso gli indirizzi privati (dati sensibili) dei lettori l'ex direttore? Si parla di denunce e di esposti alla polizia postale, si ironizza su come egli sia caduto in basso. Personalmente mi domando se riceverò anch'io una missiva del genere ma ciò non accade.

Mi rendo conto che l'ho fatto lunga e che in pochi avranno resistito fin qui a questa chilata di cazzi miei, ma siamo all'epilogo della storia. 
L'altro giorno, alla festa del papà, torno a casa da lavoro e trovo un regalo impacchettato ad aspettarmi. Lo apro e beh, a questo punto avrete capito di cosa si trattava. Già, proprio Wild Thing di Stèfani, in tutto il suo ingombrante splendore (25x32, 320 pagine). In pratica la mia sweet half aveva trovato nella cassetta la lettera dell'ex-direttore ed in gran segreto,conoscendo la mia passione per il Mucchio Selvaggio, ne ha ordinata una copia, ignara di tutto il rumoroso ambaradam che questo libro si porta dietro.
Che dire? Da una lettura delle prime pagine mi sento di confermare le critiche negative che il volume ha ricevuto (una su tutte: la scrittura approssimativa da fanzine adolescenziale), ma al tempo stesso non posso negare un certo fascino che il libro racchiude, in fin dei conti, paraculo o meno, Max Stèfani la storia del rock e dell'editoria musicale italiana l'ha attraversata per davvero.

La mia copia autografata di Wild Thing...

venerdì 22 marzo 2013

80 minuti di Lamb of God

I Lamb of God (from Richmond, Virginia) si autodefiniscono "una band punk che suona heavy metal". La critica li indica più prosaicamente come band di groove metal con influenze metalcore, thrash, speed e hardcore. Il gruppo ha inciso, dal 2000 al 2012, sei album, ma già precedentemente i suoi membri fondatori (il chitarrista Mark Morton; il batterista Chris Adler e il bassista John Campbell) avevano rilasciato un album con la ragione sociale Burn the Priest. 
Nella playlist che segue ho cercato di riassumere il loro percorso musicale.

1) Black label
2) Ghost walking
3) Laid to rest
4) Redneck
5) Contractor
6) Hit the wall
7) 11th hour
8) Now you've got something to die for
9) Desolation
10) Walk with me in hell
11) Set to fail
12) Ruin
13) King me
14) As the palaces burn
15) In your words
16) Omerta



mercoledì 20 marzo 2013

By five o'clock in the evening every bastard there was pissed

Ci sono dei momenti nei quali la tua già fragile stabilità emotiva vacilla pericolosamente sotto i colpi degli eventi, di alcune prove alle quali sei sottoposto, dello stress, della disillusione. In quei momenti, quando il tuo controllo emotivo è solido come i bilanci della Parmalat di Tanzi, basta un'inezia per innescare paurosi scompensi d'umore. Per uno come il sottoscritto, che ha consolidato un rapporto patologico-compulsivo con la musica, è quasi sempre una melodia a fare da detonatore a tutte le emozioni compresse, caratteristiche dei periodi di difficoltà. Ieri, ad esempio, è bastata questa scena di The Wire per portarmi quasi alle lacrime. L'ambiente è quello di un pub irlandese frequentato dai poliziotti di Baltimora e l'occasione è l'omelia funebre, con tanto di cadavere steso su di un tavolo e carro funebre in attesa all'esterno, di uno sbirro di quel distretto. Tra sigari e alcol come se piovesse, a un certo punto (il minuto 01.45 del filmato, per i più pigri) parte l'intro di quella stramaledetta canzone che è Body of an american dei Pogues e appena inizia la strofa tutti prendono a cantarla. Anche se non siete una fighetta come me, solo se avete il cuore fatto di legno potete restare indifferenti. 
Ma che ve lo dico affà? Guardatela e basta.


lunedì 18 marzo 2013

Son Volt, Hony tonk (2013)


Jay Farrar dei Son Volt, arriva, come Jeff Tweedy dei Wilco, dalla comune esperienza degli Uncle Tupelo, band seminale in ambito di country moderno ( tra i padri dei movimenti alternative country/no depression), e anzi, fu proprio lui a causare lo split di quel gruppo, abbandonandolo improvvisamente nel 1994.
La storia ci insegna che le cose hanno poi sorriso a Tweedy e ai Wilco, considerati oggi tra le formazioni più importanti del rock e meno a Farrar, relegato alle seconde linee di un successo e di una platea di fan decisamente più ristretti.

Eppure i Son Volt erano partiti bene, con tre album in tre anni (dal 95 al 98) caratterizzati da un buon bilanciamento tra la tradizione acustica di provenienza ed innovative tensioni elettriche che conferivano al loro sound un personale trademark, penalizzato dal solo limite di essere un pò troppo ripetitivo (per azzardare un paragone, nello stesso periodo i Wilco uscivano con tre album diversissimi tra loro come A.M. ; Being there e Summerteeth). E così arrivava una pausa di riflessione e uscite discografiche sempre più dilatate nel tempo (tre release in undici anni), fino alla recente pubblicazione di questo Honky Tonk.

Già dal titolo è intuibile l'orientamento del lavoro. Assistiamo in effetti ad un recupero della tradizione true country, influenzata da un ritorno alle atmosfere Uncle Tupelo ma, soprattutto, da un personale approccio al cosiddetto Bakersfield sound (stile portato al successo da Buck Owens) contraddistinto da atmosfere languide e sognanti, ballate acustiche, delicati valzer e al massimo qualche mid-tempo. Gli estratti migliori sono l'apertura con il western sound di Hearts and minds, il lento Angel of blues, le Owens oriented Brick walls; Bakersfield; Seawall e Tears of change, anche se un disco di questa natura ha la sua forza nel progetto complessivo, nella sua compattezza ed unicità.

L'impressione è che Farrar abbia compiuto l'ultimo tentativo di arrivare al (meritato) successo popolare attraverso lo sfondamento delle classifiche USA di genere con un disco onesto e ruffiano al tempo stesso. Il tempo dirà se il tentativo andrà a buon fine. Io, come potete immaginare, glielo auguro.

7/10

sabato 16 marzo 2013

Chronicles 9

Ecco. Siamo nei sessanta giorni decisivi per il destino della mia azienda. Sessanta giorni significano indicativamente nove settimane. Se penso ad altre nove settimane ad un livello di stress analogo a quello degli ultimi giorni mi vengono le gambe molli. Non ce la posso fare.

mercoledì 13 marzo 2013

Treme


Analogamente a quanto fatto con The Wire, David Simon crea fiction facendo perno attorno ad una città americana. E se in quel poliziesco, uno dei migliori di sempre, l'autore riusciva a stabilire un legame forte tra il telespettatore e Baltimora, prima ancora che con i personaggi, pensate quanto possa crescere l'empatia nel caso di una storia ambientata a New Orleans sei mesi dopo la devastazione dell'uragano Katrina.

Questo è Treme Un serial che riesce a contenere in se diversi aspetti delle produzioni televisive di qualità. Può essere considerato un instant tv movie, visto che racconta un periodo di storia americana molto recente (Katrina si scatenò a fine estate del 2005), o un docufilm, in considerazione delle ricostruzioni storiche, dei luoghi e degli avvenimenti che riprende; un'opera di denuncia, ma anche ottima fiction e, soprattutto, un veicolo straordinario per la musica e il folklore di quelle zone.

Tornando ai parallelismi con The Wire, Simon aveva ampiamente dimostrato di trovarsi a suo agio con una narrazione corale e lo stesso modus operandi è ripreso, e addirittura enfatizzato, in Treme, dove vengono proposti una dozzina di intrecci narrativi, tra storyline principali e secondarie, servendosi di personaggi straordinari, a volte realistici, altre più letterari, ma in ogni caso semplicemente perfetti.

Tra di essi, non posso che iniziare citando quel mostro di bravura che risponde al nome di John Goodman, del quale avevo perso da un pò le tracce e che qui interpreta Craighton Bernette, scrittore e  professore di Inglese della Tulane University profondamente legato alla città (elemento questo che contraddistingue tutti i personaggi), ed estremamente critico verso le gravi responsabilità delle istituzioni locali in merito alla gestione preventiva e successiva della catastrofe. Goodman ci regala un character meraviglioso, appassionato ma anche cinico, dotato di un'intelligenza vivace, di un sarcasmo corrosivo, di una personalità debordante, amatissimo dalla moglie Toni, avvocato impegnata sul fronte dei diritti civili, anche lei parte importante della storia, e dalla figlia Sofia.

Da The Wire vengono poi cooptati Wendel Pierce (era il detective Bunk Moreland), nei panni di un suonatore di trombone tanto talentuoso quanto incasinato nella vita privata e Clarke Peters, che personalmente ho fatto fatica a ricondurre all'imperturbabile detective Lester Freemont rispetto al ruolo da sciamano (nella finzione dei costumi tradizionali sfoggiati al Mardi Gras e nella notte di San Giuseppe e nell'effetto lenitore che ha sulla comunità) ritagliato per lui in Treme. Anche Steve Earle, dopo The Wire, torna a recitare per Simon, interpretando un buskers (un musicista di strada). 

Il che mi dà lo spunto per parlare di un altro dei pilastri fondanti della struttura di Treme, la musica. In ogni singolo episodio si prende una parte determinate della narrazione. Descrive momenti di gioia, di lutto, sottolinea passaggi cruciali o anche solo riempitivi, attraverso l'atmosfera che si respira nei club dove viene suonato il classico New Orleans Rhythm and blues (un compendio di soul, jazz e blues che pone in primo piano la sezione fiati ed il pianoforte) o attraverso la musica che fa da commento alle immagini. E' lunga la lista di artisti che hanno interpretato loro stessi lungo i dieci episodi della serie: tra gli altri Elvis Costello, Dr John, Irma Thompson, i Pine Leaf Boys e la deliziosa Lucia Micarelli, violinista italo coreana che ha un posto importante tra le storie della serie.

Poi, beh, c'è l'aspetto più incisivo di tutta la produzione. Quello della denuncia sociale delle istituzioni, a tutti i livelli, partendo da George W. Bush (al quale DJ Davis, il personaggio più leggero, "johnbelushiano", del lotto dedica un pezzo irriverente che scala le classifiche di vendita locali) al sindaco, all'esercito, alle abiette speculazioni immobiliari post Katrina. Attraverso la vicenda di Daymo Williams, detenuto scomparso dopo un arresto avvenuto a ridosso dell'uragano, viene brutalmente vivisezionata anche l'opera della polizia locale rispetto alla quale però c'è anche una sorta di indulgenza verso alcuni uomini che la compongono e che tentano di comportarsi onorevolmente.
 
La serie è arrivata alla terza stagione e, nel caso fin qui non si fosse capito, è da vedere senza esitazione. E' semplicemente incredibile che una produzione di questo valore non abbia, ad oggi, trovato una distribuzione italiana nonostante l'invasione continua sui nostri piccoli schermi di qualunque scoreggia arrivi dagli States.
Anche se questo aspetto almeno un elemento positivo in se lo racchiude: ti impone di gustare Treme in lingua originale. Il che, e ve lo dice uno che fino a qualche tempo fa preferiva i film doppiati, è un piacere nel piacere, fidatevi.
 

lunedì 11 marzo 2013

W.E.T. , Rise up (2013)



Jeff Scott Soto bazzica il music business da una vita. Ha cantato in diversi progetti di Yngwie Malmsteen, sostituito per pochi mesi Steve Augeri nei Journey, fatto il corista per gente come Lita Ford, Stryper, Saigon Kick, cantato nei Talisman, collaborato a centinaia di progetti, inciso, a vario titolo, decine di dischi.
Dagli artisti e le band citate nella premessa risulta già chiaro quale sia il campo da gioco del navigato singer portoricano, si tratta di quel segmento rock che viaggia tra l'AOR e il cosiddetto hair metal. Generi che hanno avuto il loro splendore massimo durante gli ottanta e che sono stati spazzati via dall'esplosione del grunge, ad inizio novanta. Generi che rappresentano uno dei tanti miei guilty pleasure (splendida definizione anglosassone spesso usata dall'amico Jumbolo) in ambito musicale. Generi che oggi sopravvivono a beneficio di una manciata di appassionati, perlopiù giapponesi e del nord Europa. 
Uno dei tanti, recenti, progetti in questo ambito musicale del vocalist di Portorico è rappresentato dai W.E.T. (l'acronimo, curiosamente, è formato dalle iniziali delle band nelle quali hanno suonato i componenti del gruppo: Robert Sall / Work of art; Eric Martensson / Eclipse; Jeff Soto / Talisman), combo che arriva con Rise up al secondo lavoro a quattro anni di distanza dal debutto.

L'album è una garanzia assoluta per quella nicchia di fan superstiti del sound sopra descritto che potrebbero posare la puntina su un brano a caso del disco (o premere in sicurezza il tasto random del lettore cd) riuscendo sempre a trovare pane per i loro denti, in un tripudio di refrain subdolamente assassini piazzati strategicamente quasi sempre entro i quarantacinque secondi iniziali di ogni singolo pezzo, ballate zuccherine e attitudine da posers di altri tempi. Dal mazzo delle dodici tracce estraggo comunque i due singoli inizialmente scelti a rappresentare il lavoro (Learn to live again e il lentaccio "defleppardiano" Love heals), l'ariosa opener Walk away, le trascinanti What you want e Broken wings, la ballad di rigore Still believe in us.
Nel discreto numero di persone che tenta di avere una fetta della minuscola torta del business che questo genere per nostalgici rappresenta, va sicuramente riconosciuta a Soto e soci una capacità notevole di mettere in musica tutta l'esperienza delle loro carriere, coniugando sapientemente,tra gli altri, Foreigner e Journey, i primi Bon Jovi e i Mr Big, Asia, Reo Speedwagon e Cheap Trick. Se qualcuno, leggendo questi nomi, ha una smorfia di disgusto può anche fermarsi qui. I pochi altri possono continuare, ignorando la scarsa originalità e i testi da quindicenni,  e dare una chance al rock patinato dei W.E.T.

6,5/10 (F.F.O. , For Fans Only)

sabato 9 marzo 2013

Chronicles 8

Negli ultimi trentanni c'è stato in pratica solo un breve periodo nel quale non abbia speso buona parte dei miei soldi per comprare dischi. E' successo alla fine dei novanta, quando ancora vivevo da solo e qualcuno(a) ha avuto la pessima idea di regalarmi la Playstation. Da quel momento ho cominciato a trascurare la musica e a dirottare guadagni e tempo su giochi e riviste del settore. Era l'epoca aurea della consolle Sony, che aveva massacrato la concorrenza anche grazie a titoli che hanno fatto la storia moderna (Tomb Raider, Resident Evil, Tekken, Doom, Crash, Driver, Final Fantasy, Metal Gear Solid) e che aveva intuito come il business dei videogiochi potesse diventare una miniera di soldi se applicato non esclusivamente ai ragazzini ma anche (e sopratutto) agli adulti. Quella sbandata per i games (non parlo di scheletro nell'armadio perchè ancora oggi molti miei coetanei passano le giornate sugli iperrealistici giochi moderni) è durata comunque poco, roba da un paio di anni al massimo. La cosa per me aveva perso di interesse al punto da non essere indotto in tentazione nemmeno dal fatto che da qualche tempo abbia comprato a mio figlio la Wii di rigore, probabilmente anche per il target da bambino dei giochi che fin qui gli ho preso.
Fin qui, appunto. Perchè la settimana scorsa non ho resistito e ho acquistato in una catena di giochi usati il titolo Guitar Hero con annessa chitarra/controller. Il  titolo (uno dei più famosi) è anche vecchiotto, visto che comincia ad avere i suoi anni sulle spalle (il primo della serie è uscito nel 2005) ma per chi non l'ha mai provato e per un chitarrista fallito come me è un esperienza divertentissima. Sul manico della Kramer invece delle corde ci sono cinque tasti colorati, sul corpo uno switch per le pennate e persino la leva del vibrato. Sullo schermo scorrono i colori relativi ai tasti da premere per suonare (volendo anche in modalità bass player) noti pezzi rock (nell'edizione che ho comprato ce ne sono una sessantina, tra gli altri The one i love dei REM, Livin on a prayer dei Bon Jovi, Eye of the tiger dei Survivor). Avendo suonato in passato dopo un pò è abbastanza semplice prenderci la mano. Vedere invece Stefano che, spontaneamente, per la concentrazione di coordinarsi, muove il manico della chitarra su e giù mentre alza e abbassa i piedi come Angus Young è uno vero spettacolo. 
Come era quel detto? Più si invecchia...


mercoledì 6 marzo 2013

Dexter, stagione 7



La descrizione dell'immagine promozionale che ho postato qui sopra descrive in maniera minimale ma efficace, come costume consolidato dell'intrattenimento USA, il punto in cui avevamo lasciato Dexter Morgan, la sorella Debra e la Omicidi di Miami. La domanda che ci siamo posti immediatamente dopo la fine della sesta stagione era: "come gestiranno il rapporto tra i due, già incasinato dai sentimenti di Deb, dopo questo colpo di scena?"

La risposta è bene, molto bene. Con la necessaria, lenta introspezione e senza banalizzare un tema così cruciale nelle dinamiche della storia. In aggiunta a questo gli sceneggiatori scelgono la strada di sviluppare più sotto trame, sviando lo spettatore su quella che sembra la principale, la contrapposizione tra Dexter e Isaak Sirko, capo della mafia ucraina interpretato elegantemente dall'inglese Ray Stevenson, mentre sotto la cenere cova il fuoco di un plot che deflagrerà negli ultimi episodi e che minaccia di avere ulteriori conseguenze drammatiche per il nostro serial killer preferito.
Oltre a Sirko, un altro personaggio importante introdotto quest'anno è quello di Hanna McKay (interpretata dall'australiana Yvone Strahvoski), precoce assassina ora adulta, che cerca di vivere all'insegna del low profile ma che non riesce ad allontanare da se i morbosi interessi dei media. Hanna è una figura affascinate, ambigua e controversa, destinata inevitabilmente ad attirare a se, in un modo o in un altro, le attenzioni di Dexter.
Si scava ancora molto nel personaggio Debra Morgan, che viene sottoposta a prove che minano letteralmente la sua tenuta psicologica ma che, alla fine, seppur nel dramma, rinsaldano il rapporto con il fratello. Entrambi sono chiamati a compiere dei gesti per loro devastanti ma necessari alla sopravvivenza dell'altro.
Dato per scontato che chi legge un post di questo tipo mette in conto di incappare in spoiler, cercherò comunque di comportarmi da equilibrista nella chiosa della recensione. Durante la visione ho cominciato a fare una lista mentale dei maggiori protagonisti del cast indiziati a lasciarci le penne (dopo sei anni è una dinamica fisiologica per una serie televisiva). Ebbene, il character che alla fine effettivamente passa a miglior vita l'avevo piazzato "solo" alla terza posizione, dietro a due personaggi, uno storico e l'altro poco meno, che mi sembrava avessero dato ormai quanto potevano in termini di contributo alla storia. 
Nel complesso tutto  contribuisce ad una valutazione che torna ad essere positiva rispetto al recente passato.  L'inversione di tendenza che dal mio piccolo avevo "chiesto" agli autori dopo la stagione sei mi sembra ci sia stata, non ci resta che attendere l'ottava, conclusiva (salvo ripensamenti), stagione. 

lunedì 4 marzo 2013

Bachi da Pietra, Quintale (2013)


Sono della corrente di pensiero per la quale anche la scelta del nome di una band incide in misura significativa sulle future fortune del gruppo. In questo senso il monicker Bachi da Pietra pur essendomi noto da tempo non ha mai suscitato attrazione o curiosità in me, anche a causa del fatto che pensavo si riferisse ad un gruppo di rock demenziale, genere che apprezzo poco. Sicuramente è un mio limite, non discuto. Beh, se può servire a rimediare all'approccio superficiale rispetto al lavoro di Giovanni Succi (voce, testi,musica,chitarra e basso) e Bruno Dorella (batteria, percussioni), posso dire che questa premessa è l'unica nota negativa contenuta nel post che state leggendo, visto che, per ciò che conta davvero, vale a dire l'offerta musicale, l'opera del duo mi ha invece folgorato.

Quintale, prodotto da Giulio Ragno Favero (One Dimensional man, Teatro degli Orrori, Zu) è infatti un lavoro dall'approccio molto poco italiano (citazione): ruvido, sporco, slabbrato, aspro. Un lavoro che parte in maniera devastante, attraverso un trittico di pezzi talmente anglosassoni nella produzione, che ti stupisci quando la strofa attacca con l'idioma italico. Haiti mette insieme le tensioni e i riverberi elettrici di Neil Young (di Arc/Weld o di Le Noise) e il Tom Waits più tenebroso, per giungere ad un risultato vibrante ed oscuro, che crea una tensione trattenuta pronta a deflagrare nel successivo, liberatorio, hard rock-blues di Brutti versi. Questo è un pezzo che ha tutte le caratteristiche per diventare un anthem, un inno, uno sfogo da urlare a squarciagola. Il protagonista del pezzo se la prende con qualcuno a cui a cui ha prestato del denaro e che, invece di restituirglielo, l'ha impiegato per pubblicare letteratura atroce "Il danno è doppio" si lagna Giovanni, "uno per me / uno per il mondo". Credetemi è raro sentire un pezzo italiano così in linea con le tradizioni di rock pesante europee ed americane. Lo stesso ragionamento, forse ancora più marcato, vale per Coleotteri, che si avvale di un lavoro mostruoso di Dorella alla batteria, e che, viaggiando a folle velocità sempre in ambito metal, oserei orientare dalle parti dei primi Queens of the stone age. 

Ma anche quando l'approdo è verso porti più consoni a sonorità meno esterofile, la personalità ed il songwriting dei Bachi si distingue per una sua originalità rispetto ai noti modelli, anche indie, del nostro Paese. Così è per Enigma, e così è, sopratutto, per Fessura, che cambia totalmente pelle rispetto al rock pesante della prima parte del disco e che, attraverso l'utilizzo delle allitterazioni, si fa quasi spazio tra le cose più intelligenti e poetiche della scena rap italiana (ci avrei visto bene,per dire, un featuring di Neffa o dei Cò Sang).
Detto dell'originalità della proposta, devo anche aggiungere, per onestà, che, sopratutto nel corso dei primi ascolti mi è sembrato di cogliere a tratti qualche rimando alle impostazioni vocali di Pelù o Ligabue (in particolare nella splendida Dio del suolo), ma che con l'intensificarsi degli ascolti questa sensazione ha progressivamente perso d'intensità rispetto alla compattezza e alla forza globale del lavoro, sopratutto nel momento in cui il disco torna a pestare duro come in Pensieri parole opere , il cui incipit esplicita quanto bene starebbe l'inglese sulle sonorità dei Bachi, e Paolo il tarlo che flirta col Teatro degli Orrori.

L'album ha una doppia chiosa. Quella artistica è lasciata al perfetto epilogo di Ma anche no, classico closing theme a consuntivo. A seguire, non nascosta come una ghost track ma slegata dal contesto musicale del lavoro, deputata ad affermare il punto di vista di Bruno e Giovanni, arriva la traccia numero tredici baratto@bachidapietra.com, brano acustico lo-fi nel quale i nostri mettono alla berlina il filesharing e i comportamenti di quanti scaricano e diffondono illegalmente il loro materiale. La traccia è amara e dissacrante e sicuramente pone una riflessione rispetto a certi automatismi della rete, mostrando il punto di vista degli artisti "derubati" e spiegando il danno, anche economico, subito sopratutto dai musicisti meno noti. Volendo approfondire il ragionamento, di per se giustissimo, ci sarebbe solo da contrapporre la sottovalutazione degli effetti positivi sulla visibilità di un gruppo indie che lo scambio dei files musicali rappresenta. 

Detto questo, il disco va comprato (o barattato, come suggeriscono in subordine i Bachi da Pietra) perchè lo merita, visto che, a mio avviso, nonostante sia uscito all'inizio dell'anno, si candida prepotentemente tra i  migliori del 2013. Il tutto a prescindere dalla ragione sociale che rappresenta la band.

8/10


sabato 2 marzo 2013

Chronicles 7

Nel prescindibile sequel del film City Slickers (in italiano Scappo dalla città - La vita, l'amore e le vacche), il grande Billy Crystal commenta la sua immagine allo specchio, prima di raggiungere la moglie a letto, evidenziando come, superati i quarant'anni la pelle del suo viso fosse sciupata e i capelli si facessero più radi, mentre i peli nel naso e nelle orecchie crescessero sempre più folti. Per questo decide di darsi una botta di gioventù partecipando ad una sorta di surviving test che lo farà vivere come un cowboy di fine 800.
E' fatto piuttosto noto che molti uomini, addentrandosi in quel decennio che va dai quaranta ai cinquanta, comincino a vedere vacillare ciò che fino a quel momento aveva per loro rappresentato certezze esistenziali, come se solo in quel momento si rendessero conto dell'inevitabile invecchiamento, del declino psicofisico ed infine della dipartita. E' in questa fase che mettono in discussione il loro status quo familiare, professionale,intellettuale o fisico.
Nella migliore delle ipotesi mollano il calcetto e cominciano a praticare sport devastanti oppure chiamano gli amici con i quali avevano formato un gruppo musicale da giovani per riprendere in mano gli strumenti; nella peggiore (oddio, dipende dalle situazioni) mollano moglie e figli e si mettono magari con una lituana di vent'anni. Ognuno vive questa fase a modo suo, ma più di uno compie scelte radicali. 
L'altro giorno un collega vicino ai cinquanta mi esprimeva la sua tentazione di mollare il lavoro, raccogliere l'incentivo aziendale all'esodo, liquidazione e risparmi e trasferirsi a Cuba con la moglie (di quelle parti) e il figlio dell'età di Stefano, perchè "sono gli ultimi anni che posso godere prima dei sessanta e non vorrei passarli qui". 
Io onestamente non so cosa pensare. Certo, sarei un'ipocrita ad affermare di essere superiore a questi pensieri. Qualche primo cedimento del fisico comincio ad avvertirlo: non sono mai stato un iron man, ma mi accorgo che adesso recupero le fatiche molto più lentamente di qualche anno fa. Anch'io comincio a guardare un pò preoccupato l'immagine che mi rimanda lo specchio e anch'io comincio a pensare di non avere più così tanto tempo per fare le cose che rimando da sempre. D'altra parte non sono mai nemmeno stato uno che si butta di getto nelle cose o un decisionista, per cui, anche in questo caso, dovessi mai assumere decisioni balzane, lo farei magari tra vent'anni, in consueto ritardo sui tempi, sulle dinamiche esistenziali e sulle mode.
Sempre di arrivarci, ovviamente.