martedì 30 aprile 2013

MFT, aprile 2013

ASCOLTI

Giusto due righe di accompagnamento alla consueta lista di preferenze mensili, perché questa influenza primaverile che mi attanaglia si è rivelata più subdola del previsto e di concentrarmi più del minimo sindacale proprio non me lo consente.
Dunque, aprile è stato un mese fertile di uscite molto attese, come avevo anticipato nell'ultimo MFT. Le trovate tutte in elenco, aggiungo solo che, al momento, tra Ghost, Big Country, Steve Earle e Volbeat, la palma del più ascoltato va alla band danese.


Ministri, Per un passato migliore
The Black Angels, Indigo meadow
David Bowie, The next day
Suicidal Tendencies, 13
Justin Timberlake, The 20/20 experience
Opeth, Blackwater park
Steve Earle, The low highway
Big Country, The journey
Ghost, Infestissumam
Volbeat, Outlaw gentlemen & shady ladies
Orchid, The mouths of madness
Iggy and the Stooges, Ready to die
Kvelertak, Meir
Metallica, St Anger
Five Finger Death Punch, American capitalist


VISIONI
 
Terminato non senza sbadigli The Walking Dead, sono immerso nella gratificante visione di Games of Thrones. La terza stagione (giunta al quinto episodio) è partita col botto. Al momento di scrivere sono anche alla final season della quarta di Breaking Bad.
 
LETTURE
 
Terminato con soddisfazione Le Teste di Giuseppe Genna, mi sto dedicando alla biografia di Lemmy Kilmister dei Motorhead: La sottile linea bianca.


sabato 27 aprile 2013

Chronicles 14

Le montagne russe climatiche di questi giorni, con la loro escursione termica a botte di quindici gradi, mi hanno provocato un raffreddore stagionale di quelli che durante la notte microscopici muratori bregamaschi ti  sigillano il naso con un muro di cemento armato. 
Ho un tale mal di testa che mi dà noia anche il planare di una piuma e parlo come la caricatura di quelli con il raffreddore nei cartoni animati. 
Mentre scrivo codesto bacilloso post guardo l'albero fuori dalla finestra della cucina piegarsi sotto gli schiaffi del vento e la pioggia cadere orizzontale. 
Contestualmente Stefano chiede di andare in piscina e mi aspetta il turno bimestrale di pulizia delle scale condominiali.
Chiedo asilo.

giovedì 25 aprile 2013

Tradimento

Dopo averlo negato perentoriamente (com'è che era? Ah sì: - non faremo mai un governo con Brunetta e Gasparri!-) il PD,guidato dall'ambiziosissimo Letta jr, si appresta a formare una coalizione "di larghe intese" insieme a Berlusconi (Be-rlu-sco-ni!). 
Ho scorso la lista del cosiddetto totoministri e mi ha assalito una tristezza abissale, indicibile. Sacconi, Gelmini, Romani, Lupi.Brunetta.
Altro che 25 aprile.
Tutto è perduto.

mercoledì 24 aprile 2013

Metallica, Some kind of monster (dvd)



Appena entrati negli anni zero i Metallica attraversarono quella che probabilmente può oggi essere definita come la loro crisi più nera. Una crisi che li portò ad un passo dallo scioglimento e che è deflagrata con l'addio alla band del bassista Jason Newsted, con il gruppo dal 1986, dopo la morte del compianto Cliff Burton.
Il  lacerato rapporto tra i due leader del combo, il chitarrista/cantante James Hetfield e il batterista Lars Ulrich, è alla base delle difficoltà a portare avanti il progetto Metallica. Questa incomunicabilità, e la tensione strisciante tra i due, porta il loro management ad organizzare un ciclo di sedute con  Phil Towle, un "Performance Enhancement Coach" specializzato nelle terapie di gruppo di note squadre di football americano o, appunto, di bands in crisi (c'è poco da sorridere, si parla di onorari da $ 40.000 al mese).

Il management, partendo dall'idea iniziale di realizzare un docu-rock sui lavori di realizzazione del nuovo album  dei Tallica, propone a James, Lars, Kirk e al produttore Bob Rock di riprendere anche le sedute motivazionali con Towle, e così prende vita il progetto definitivo di Some kind of monster.

All'inizio vediamo la band, con Bob Rock al basso, all'interno di una ex base militare abbandonata (Il Presidio) dalle parti San Francisco. E' qui che si sviluppano le incomprensioni e le liti più furibonde tra Hetfield e Ulrich, al punto che il chitarrista/cantante ad un certo punto sbatte la porta e se ne va, lasciando gli altri nell'ansia e nell'incertezza, visto che, anche a causa di gravi dipendenze da alcol e droghe, egli sparirà per molti mesi per ricoverarsi in un rehab, tagliando i contatti con la sua famiglia musicale. A quel punto il resto del gruppo abbandona Il Presidio per non farci più ritorno.
Hetfield, al suo rientro, pur apparendo ripulito e rilassato, impone una regola assurda agli altri: essendo lui costretto dai terapisti del centro di recupero a lavorare (e quindi suonare/comporre) entro il limite di tempo di quattro ore (dalle 12:00 alle 16:00), anche gli altri dovranno assecondare questo vincolo, astenendosi anche solo dal riascoltare il materiale registrato, in assenza di James. Ovviamente questa imposizione non farà che riaccendere la miccia delle tensioni, arrivando quasi a vanificare ogni tentativo (di manager, label e coach) di arrivare ad un compromesso per ultimare l'album e salvare la band.
La via d'uscita è rappresentata dalla salvifica individuazione di un bandolo della complessa matassa (ore e ore di registrazione) dei lavori in studio del gruppo. Quello che diventerà St. Anger (anche in questo caso cantante e batterista non sono d'accordo sul nome da dare al disco, con il secondo a preferire come titolo Frantic) gradualmente comincia  a soddisfare il gruppo, che incanala quindi la propria rabbia contro Phil, al quale viene dato un brusco benservito.

La prima considerazione che muovo in merito al documentario è che Hetfield e Ulrich non ci fanno una gran figura, presi come sono dal loro smisurato ego, da una competizione continua e dal pesare ogni singola parola nei pochi dialoghi che intrattengono. Il terzo membro storico, Kirk Hammett, è decisamente posto su un piano inferiore, a fare da classica anfora di cristallo stritolata tra quelle di acciaio.
La seconda considerazione è che Some kind of monster spazza via violentemente ogni visione ingenua e fanciullesca del carrozzone del rock and roll che molti fans (ed io tra loro) si immaginano. I Metallica (come altri al loro livello, suppongo) non sono (più) una band, ma a tutti gli effetti un azienda, che dà lavoro e salario ad un'infinità di persone e che è strutturata come un consiglio d'amministrazione (con tanto di peso diverso nelle decisioni da assumere a secondo della carica ricoperta).
La terza è che, nonostante la durata del film (due ore e venti che, sommate alle scene tagliate sul secondo disco, arrivano ad accarezzare le tre) e il contesto un pò peso e privo di ironia, questo è un documento decisamente interessante. Il processo di creazione dei pezzi è avvincente e in alcune scene sembra di intravvedere di nuovo la scintilla negli occhi dei four (three) horsemen prendere il posto dello sguardo da milionario incazzato,scazzato ed arrogante. Succede ad esempio durante le audizioni per il nuovo bassista, vinte a mani basse da Rober Trujillo (Suicidal Tendencies; Ozzy Osbourne), animelesco bass player con uno stile molto particolare, che incanta tutti per la velocità e la precisione dell'esecuzioni di Battery.
Si sorride anche per la figura da signorina di Dave Mustaine (uno che di norma ha la fama di tipo aggressivo) che nonostante i quindici milioni di dischi venduti coi suoi Megadeth, ancora piagnucola per quanto ha sofferto a causa del suo allontanamento dalla band in nuce, nel 1983.
Volendo trovare una quarta considerazione, m'è tornata la voglia di ascoltare St Anger, un disco che all'epoca dell'uscita trattai con molta sufficienza.

Titolo da recuperare insomma, e non necessariamente solo dai fans dei Metallica.

lunedì 22 aprile 2013

David Bowie, The next day





"Here i am, not quiet dying" (The next day)

L'uscita del nuovo disco di David Bowie si porta dietro due ricorrenze. Una marginale e l'altra significativa. La prima riguarda me, non un grande fan del Duca Bianco, che torno ad ascoltare per intero un suo disco di inediti dal concept che vedeva protagonista il detective Nathan Adler in Outside del 1998. L'altra, storica, concerne proprio il ritorno del sessantaseienne artista inglese a dieci anni di distanza da Reality.

The next day è frutto del lavoro di due anni, svolto pare in gran segreto, con il produttore Tom Visconti. Where are we now, il brano che ne ha anticipato l'uscita è stato diffuso senza preavviso (rinunciando dunque ad ogni marketing commerciale), accompagnato da un video che più lo-fi non si poteva e la copertina dell'album, infine, è la medesima di Heroes, con la bizzarra trovata di coprire il viso di Bowie con una patch bianca e di cancellare il titolo del disco del 1977, lasciandolo comunque ben visibile sotto la riga nera.

E' difficile capire le motivazioni di scelte così anomale e di basso profilo per un artista che, da sempre, ha giocato con i media attraverso le variazioni spiazzanti del look e degli aspetti visivi della sua arte. Ma, come si dice (o perlomeno lo dico io) quello che conta alla fine è solo la musica, e io trovo che dentro questo disco ce ne sia di grandiosa, a partire dalla title-track posta in apertura (e dalla quale ho estratto un significativo e forse autobiografico verso in premessa del post) : un testo amaro sopra un ritmo che riconduce inconfondibilmente alle cose migliori di Bowie, ed un refrain, superfluo sottolinearlo,trascinante. 
Ma è tutta la prima parte del disco (direi fino alla traccia numero sei, Valentine's day) a convincere appieno, con una suadente Dirty boys incorniciata dall'affascinate e costante lavoro del trombone, una già classica The stars (are out tonight), alle malinconiche Love is lost e, soprattutto, Where are we now. Anche nei pezzi successivi non si registrano ad ogni modo grosse flessioni, grazie all'ispirazione che continua a supportare David ne I'd rather be high, Boss of me e la quasi citazione ad Hank Williams sr di You feel so lonely you could die.
Il grande momento creativo del ritrovato Bowie è sottolineato anche dal gran numero di tracce presenti nel disco: quattordici nell'edizione normale più ulteriori quattro in quella deluxe. Se fossimo in un mercato discografico d'altri tempi, questa sarebbe un'opera capace di produrre non meno di cinque singoli d'alta classifica.

Il tutto per dire che a mio avviso The next day, oltre a celebrare degnamente il comeback di uno degli artisti musicali più influenti di sempre,  si guadagna sul campo, senza privilegi acquisiti, stima e apprezzamento, al punto di candidarsi autorevolmente per la decina dei migliori del 2013.

7,5

domenica 21 aprile 2013

Black Sabbath 2013

"13", il primo album dei Black Sabbath con Osbourne (ma senza Bill Ward) uscirà tra poco più di un mese. Sarà il primo disco in studio di quella formazione dal 1978, anche se Ozzy, Iommi e Butler avevano inciso due pezzi inediti già nel 1998, includendoli come bonus tracks sul live Reunion
God is dead? anticipa l'attesissima release ed è un pezzone da nove minuti, manco a dirlo, nel classico stile della band di Master of reality...


sabato 20 aprile 2013

Giorgio

Per buona parte della mia vita ho avuto la fortuna di potermi tenere lontano dai funerali. I lutti principali della mia famiglia sono infatti avvenuti quando ero piccolo e fino ai trent'anni non se n'è mai verificato uno che richiedesse la mia presenza. Negli ultimi dieci anni invece il numero di funzioni funebri alle quali ho presenziato si è moltiplicato anche per doveri "istituzionali": ho infatti assistito di sovente alle cerimonie d'addio di dipendenti o dei loro parenti come attività collaterale al mio mestiere di sindacalista.
Quella di mercoledì scorso è stata però la prima volta in cui ho assistito ad un funerale celebrato attraverso il rito ebraico. 
A lasciare i propri cari era stato infatti il papà di un caro amico la cui famiglia professa quella fede.
Abituato alle cerimonie cattoliche che, partendo da una durata minima di tre quarti d'ora ho visto protrarsi anche fino all'insostenibile orizzonte temporale dell'ora e mezza, sovente accompagnata da malori e svenimenti, in questo caso ho invece assistito ad una cerimonia semplice, intima e toccante, celebrata al cimitero ebraico dietro il Maggiore a Milano.

I presenti si sono raccolti in una sala spoglia al cui centro è stata posta la bara del caro estinto, attorno alla quale ci siamo disposti in piedi. Il rabbino ha cantato pochi versi in ebraico, lasciando poi la parola alla persona deputata a leggere l'elegia funebre. Il rabbino ha poi formulato l'ultimo, breve saluto, prima di accompagnare la salma al cimitero. 
Non conosco approfonditamente la religione ebraica e non sono cattolico. Voglio tenermi opportunamente alla larga da qualunque comparazione delle due fedi, chè non è mia intenzione offendere, nemmeno involontariamente, i credenti di una o dell'altra. 
Ho solo riflettuto sul fatto che la compostezza e la dignità alla quale ho assistito mi hanno comunicato a livello empatico il dolore dei familiari e degli amici come raramente mi era accaduto in passato. 
Ed è tutto.

venerdì 19 aprile 2013

Lucy

Stefano sta attraversando una bella fase, contraddistinta da grande curiosità, diciamo, intellettuale. Nel senso che mi rivolge spesso domande su argomenti a lui estranei e, cosa più importante e assolutamente non scontata, sta ad ascoltare con interesse le risposte/spiegazioni che tento di fornirgli.
Dopo l'ultima  uscita sulla politica, l'altra sera, prima di addormentarsi, mi ha chiesto se conoscevo i Beatles.
I lettori del blog capiranno da sè che parlare di musica con mio figlio, per di più su sua iniziativa, mi dà un'eccitazione pari a quella che coglie la Bocassini quando riesce a mettere Berlusconi dentro un'aula di tribunale.
Quindi, in modalità gaudente gli ho risposto - Ma certo che li conosco.
A quel punto lui mi fa: - conosci una canzone che s'intitola Lucy in the sky?
Gli rispondo di sì, ma comincio ad essere inquieto. Perchè proprio Lucy in the sky with diamonds?
E lui: - sai anche il segreto di quella canzone?
A quel punto, estremamente preoccupato, gli dico - oddìo, io conosco un segreto di quel brano. Qual è il tuo?
Lui, entusiasta di aver catturato la mia completa attenzione, con fare cospiratore, mi rivela che a scuola stanno studiando la preistoria, e gli hanno raccontato di alcuni scavi archeologici avvenuti in Etiopia, dove gli studiosi hanno rinvenuto i resti di un essere primitivo (australopiteco) che, data la conformazione ossea e l'altezza, apparteneva probabilmente ad una donna. Siccome al momento del ritrovamento gli scienziati stavano ascoltando proprio Lucy in the sky with diamonds dei Beatleshanno deciso di dare allo scheletro il nome di quel pezzo.

- E tu papà quale significato della canzone conoscevi?
- Lo stesso Stefano, lo stesso...


mercoledì 17 aprile 2013

Posti in piedi in paradiso

Locandina Posti in piedi in paradiso

Siccome al di fuori dai circuiti nazionalpopolari, dove gli portano l'acqua con le orecchie, Carlo Verdone è considerato da tempo bollito, è opprtuna una premessa. A me l'attore/regista romano piace. Di lui in particolare apprezzo una manciata di film girati e interpretati nel decennio che va dalla fine degli ottanta alla seconda metà dei novanta (Io e mia sorella; Compagni di scuola; Maledetto il giorno che t'ho incontrato; in parte anche Al lupo al lupo e Perdiamoci di vista) e in particolare considero Sono pazzo di Iris Blond un bell'esempio di contaminazione tra commedia all'italiana, cinema europeo e film a tema musicale. E quella per le sette note è una passione che Verdone (ex-batterista) ha progressivamente svelato, rivelando il suo amore verso il blues (di recente per Repubblica ha intervistato Joe Bonamassa), per nomi noti come Jimi Hendrix e artisti di culto come Scott Walker. Questi temi, ben sviscerati in passato nei titoli che ho citato e in altre pellicole, vengono in parte riproposti, almeno per la storyline che riguarda proprio Carlo (l'ex agente discografico caduto in disgrazia Ulisse Diamanti) in Posti in piedi in paradiso, l'ultima sua opera uscita nel 2012 che si avvale di un cast di nomi importanti, quali Pierfranceso Favino, Marco Giallini e Micaela Ramazzotti.

Il film, al quale mi sono avvicinato con la curiosità dei bei tempi, condizionato probabilmente anche dalla buona stampa che ne ha accompagnato l'uscita nelle sale, gira intorno ad uno spunto interessante (la convivenza forzata tra tre adulti caratterialmente diversi, accomunati dalle sconfitte della vita e dall'essere squattrinati), ma si perde in una sceneggiatura esilissima, accadimenti sconclusionati, dialoghi imbarazzanti e characters (sopratutto quelli della Ramazotti e di Giallini) esageratamente folkloristici. La credibilità del Verdone negoziante di dischi è talmente scarsa da metterti nelle condizioni di ricorrere ad una rilettura d'urgenza  di Alta Fedeltà ( o in alternativa del film con Cusack) o de Il 33° giro:gloria e resistenza dei negozi di dischi (di Jones Graham) o, per restare dalle nostre parti, de L'ultimo disco dei Mohicani di Maurizio Blatto.
Spiace per Verdone e per i bravi attori del cast principale insomma, ma il film non trova mai l'equilibrio cercato tra commedia e introspezione. Come detto, non sono prevenuto, ma insomma questo è un film inconcludente e irrisolto.


lunedì 15 aprile 2013

Hatebreed, The divinity of purpose (2013)

File:The Divinity of Purpose.jpg

Gli Hatebreed, hardcore band del Connecticut, arriva al settimo album in tre lustri di carriera cercando di tornare al sound più cattivo, e appunto hardcore, che aveva visto il combo mietere consensi unanimi nel 2002 con l'acclamato Perseverance. Lo fa lasciandosi alle spalle l'ammorbidimento dei suoni legato  all'ultima release (omonima, ne avevo brevemente parlato qui) del 2009 nella quale il gruppo capitanato dal singer James Jasta aveva tentato di riconciliarsi con le radici dell'heavy metal classico.

L'obiettivo di tornare a raccordarsi con i fan della prima ora dovrebbe essere oggi raggiunto, grazie ad un lavoro brutale quanto basta, che permette cioè anche ad un ascoltatore onnivoro come me di distinguere una canzone dall'altra ed identificarne melodia, strofa e refrain (quando c'è). The divinity of purpose si muove ovviamente non solo nel solco storico degli Hatebreed, ma anche in quello dei più noti precursori del genere hardcore/metalcore/thrash metal: Black Flag, Pantera e Sepultura.
Il disco si apre con Put it to the torch, uno dei pezzi più convincenti del lotto (scelto anche per veicolare l'opera come singolo e video ) che chiarisce subito le idee di Jasta e soci: pestare ottusamente duro sugli strumenti e urlare nel microfono fino a fonderlo. E cosi via a rotta di collo fino all'ingannevole rallentamento in stile crossover dell'ottima title track in odore di Suicidal Tendencies (a proposito, sono tornati anche loro! Spero di avere tempo di recensirli prima o dopo), incastrata in una lodevole tripletta aperta da Dead man breathing e Nothing scares me.

Insomma, gli Hatebreed non brilleranno per l'originalità della loro proposta musicale ma la lealtà verso un genere ormai storico come l'hardcore metal, è indiscussa. 
Sapete cosa aspettarvi dunque, sta a voi decidere se vi interessa.

7/10


sabato 13 aprile 2013

Chronicles 13

Alle ultime elezioni, per ammazzare il tempo della fila al seggio, con Stefano ci siamo dilettati ad osservare tutti i simboli dei partiti affissi ai muri. Abbiamo giocato a scegliere il nostro preferito (quello di mio figlio era ovviamente il partito dei pirati, il mio non lo ricordo) e alla fine lui mi ha chiesto per quale avrei votato, gliel'ho detto ed è finita lì.
L'altra sera a cena, del tutto inaspettatamente, Stefano mi ha chiesto a bruciapelo se, letteralmente, avevo vinto le elezioni. La cosa mi ha preso alla sprovvista e, in considerazione dell'empasse del governo, dopo qualche balbettio me la sono cavata dicendogli che i tre partiti più grandi avevano sostanzialmente pareggiato.
Ah! Fa lui. Perchè me lo chiedi? Faccio io. Mah, niente. Risponde. Io tenevo per Grillo. Mi dice.
Per Grillo? E per quale ragione? Perchè l'ho visto al telegiornale, continua ad urlare e dire parolacce. E' un vero psicopatico! 
Merda, nuovi elettori crescono.

venerdì 12 aprile 2013

Una proposta che non si può rifiutare


Ultimamente non sto seguendo molto i media dell'informazione, per cui non so bene quale possa essere stato il risalto dato a questa notizia. D'altro canto anch'io l'avevo archiviata da tempo nelle bozze dei post, in attesa di avere lo stimolo giusto per scriverne.
Il fatto è questo: in una fonderia alle porte di Venezia, meno di duecento lavoratori e quasi mezzo secolo di storia, si arriva in maniera tormentata al rinnovo del contratto integrativo (l'insieme di norme che si vanno ad aggiungersi al trattamento minimo rappresentato dal contratto nazionale di categoria), in quanto il percorso che ha portato a questo tavolo negoziale ha visto la cancellazione arbitraria di quarant'anni di contrattazione aziendale.
Il nuovo integrativo fa dunque tabula rasa di tutto lo storico degli accordi di fabbrica. La Fim (la Cisl dei metalmeccanici) accetta di sedersi al tavolo, la Fiom (Cgil) no.

Fin qui niente di nuovo, perché di queste divisioni sindacali, soprattutto nel comparto metalmeccanici, è piena la storia recente (e non) del settore, a partire da Fiat e Fabbrica Italia. Non entro nel merito di queste scelte di posizionamento, e nemmeno mi schiero a prescindere, per mere logiche di appartenenza, con la Fiom. 
Il punto è un altro. Quando la Cisl e la proprietà arrivano ad un accordo, il sindacato di Bonanni decide di compiere una scelta, questa sì, di rottura storica. Decide cioè che l'intesa raggiunta sarà applicata solo ed esclusivamente ai propri iscritti (la fabbrica conta un centinaio di associati al sindacato, quasi equamente divisi tra Fim e Fiom) o, in subordine, anche ai non iscritti, a patto però che versino al sindacato l'equivalente di un anno di trattenute sindacali.

Potete leggere qui maggiori dettagli della vicenda, che aggiunge un nuovo tassello alla frantumazione della rappresentanza sindacale e del valore giuridico dell'erga omnes. So bene che lo statuto della Cisl, a differenza di quello della Cgil ha esclusivo valore di rappresentatività degli iscritti, e non necessariamente di rappresentanza dell'insieme dei lavoratori, ma nonostante ciò quello di Venezia mi sembra un precedente grave e pericoloso (sarò paranoico, ma mi vedo già Marchionne che ce stà a pensà), in quanto non solo agisce su motivazioni e impulsi esplicitamente di rivalsa nei confronti dell'opposizione sindacale di fabbrica, ma che tende ad imporre l'adesione coercitiva ad uno specifico sindacato anche a quanti sceglievano di non averne alcuno.
E' chiaro infatti che, se per avere la miseria di un aumento devo versare l'equivalente della quota annuale di adesione alla Fim, beh, a quel punto mi iscrivo e la faccio finita, che magari pago meno anche la compilazione del 730. 
Il tutto mentre, al solito, ci si riempie la bocca di crisi, di statistiche dell'occupazione catastrofiche, di perdita del potere d'acquisto e di impossibilità di arrivare alla famigerata quarta settimana. Complimenti per la coerenza.

mercoledì 10 aprile 2013

Way down in the hole, The Wire season 3

Ad un anno esatto dalla conclusione della season 2, ho affrontato la terza parte della saga The Wire e, come ampiamente prevedibile, è bastato poco per cascare di nuovo nella magnifica tela poliziesca creata da David Simon.
La storia riprende il filo narrativo del racket degli stupefacenti  oggetto della prima stagione, giacchè la seconda aveva spostato l'attenzione ai malaffari del porto mantenendo il tema dello spaccio di droga alle case popolari come costante sottotrama. Tornano quindi i mitologici criminali Russel "Stringer" Bell e Avon Barksdale con tutta la loro crew a seguito. Tra le new entry facciamo invece la conoscenza di Dennis " Cutty" Wise (interpretato da Chad Coleman, visto di recente in The Walking Dead), tormentato galeotto con un passato da pugile che durante la detenzione entra in contatto con Barskdale; l'ambizioso consigliere comunale Thomas J. Carcetti (l'irlandese Aidan Gillen, il viscido Lord Baelish di Games of Thrones) e approfondiamo quella del maggiore Howard Colvin (Robert Wisdom), che recita un ruolo centrale rispetto agli sviluppi della trama, che si svolge nel suo distretto, l'ovest.

La storia si svolge a cinque anni di distanza dalla conclusione della prima stagione: Avon Barksdale sta per uscire di prigione per buona condotta e a seguito degli eventi narrati nella due mentre Stringer sta diversificando le sue attività, allontanandosi sempre di più dagli atti illeciti per reinventarsi come palazzinaro. Le case popolari denominate le torri, base logistica dell'organizzazione, sono state abbattute per fare spazio al nuovo, elegante, sviluppo urbanistico di Baltimora. 

Il ritorno in libertà (vigilata) di Avon, che rivendica la sua natura di gangster ripudiando l'evoluzione a business man, provocherà una spietata guerra di territorio e metterà in crisi i progetti dell'amico fraterno, nonchè socio, Bell.
Per quanto concerne "i buoni", il detective Jimmy McNulty stronzeggia più che mai esclusivamente concentrato sull'obiettivo di chiudere il cerchio attorno a Barksdale, scontrandosi per questo con capi e colleghi (ad eccezione di Kima, con la quale evidenzia un'affinità caratteriale) che spostano inizialmente la propria attenzione su altri soggetti.
Altro aspetto importante è quello dedicato ai sordidi retroscena della politica municipale di Baltimora, nei quali sindaco, consiglieri e alti papaveri delle istituzioni vengono dipinti come squallidi figuri impegnati esclusivamente nell'attività di scaricabarile delle responsabilità/acquisizione meriti e del consolidamento delle rispettive carriere/posizioni di potere.

Il ritmo, come consuetudine, è lento, dilatato, dai fitti dialoghi non mancano mai aforismi spiccioli e humor dissacrante. Gli autori gestiscono con parsimonia la figura di Omar Little (Michael K. Williams) l'unica molto letteraria (alla Stagger Lee, per intenderci) e decisamente fuori dal tono realistico di The Wire (a questo proposito segnalo l'incipit e la conclusione quasi da western movie dell'episodio 11). Il livello qualitativo è sempre ai vertici massimi del genere, anche se forse si attesta qualcosa sotto la stagione due, che, a mio avviso, beneficiava di splendidi co-protagonisti (la gente del porto).

Way down in the hole, il pezzo degli open title originariamente composto da Tom Waits, dopo che nella prima stagione era stato interpretato dai Blind Boys Of Alabama e nella seconda dallo stesso Waits, è qui proposto dai Neville Brothers. 
Restando alle commistioni musicali, segnalo il mancato ricorso (nel ruolo di un ex-tossico) ai camei di Steve Earle, ma, in compenso, la comparsata di Clarence Clemons, compianto uomo simbolo della E Street Band di Springsteen.

Se amate il poliziesco e non l'avete mai visto, siete da ricovero.




lunedì 8 aprile 2013

I migliori della vita: Billy Joel, Greatest Hits I & II

Dopo averlo minacciato varie volte, riprendo questa rubrichetta a quasi due anni di distanza dall'ultimo post.    E lo faccio con una raccolta, consapevole del fatto che sono in molti a non apprezzare questo tipo di operazioni discografiche, ritenendole esclusivamente commerciali. Io la penso diversamente. A me, nel caso non si fosse capito, le antologie sono sempre piaciute e poi questa è stata proprio essenziale, basilare, propedeutica, (nel bene e nel male) alla mia educazione musicale. 

Correva l'anno 1985. In quel periodo mi attaccavo come una cozza allo scoglio ad ogni persona in grado di allargare la mia neonata, ma già vorace passione per il pop-rock. In quel periodo non ero esattamente pieno di amici, per i pochi che bazzicavo  la musica non aveva il peso che ormai gli avevo attribuito io e comunque quella che ascoltavano  non riusciva a saziare la mia curiosità di roba nuova ed eccitante. Colui che da lì a poco sarebbe diventato mio cognato invece qualche dritta provava a darmela, ad esempio con questo doppio album (da lui rigorosamente registrato su C90, per evitare l'usura del vinile) di un tizio con gli occhi sporgenti e i capelli arruffati che si chiamava Billy Joel. Ricordo di avergli chiesto (a mio cognato ovviamente, non a Mr. Joel) che tipo di musica facesse e che l'imprecisa risposta fu chiosata da un "vabbeh, fai prima ad ascoltarlo".

Normalmente a sedici anni si è fisiologicamente orientati ad una musica di rottura verso gli adulti, io invece, già allora, mi appassionai ad un'artista che, se fossero stati madrelingua inglese, sarebbe di certo piaciuto anche ai miei. Sì perchè Billy Joel aveva questa straordinaria capacità di assimilare in salsa popolare ingredienti soul, rock, cantautorali, jazzy, errebì. Di questo Greatest hits, all'inizio mi colpirono i pezzi più grandiosamente radiofonici come Just the way you are; My life; Big Shot; Honesty; It's still rock and roll to me e Uptown girl,  ma poi, in secondo momento, furono quelli meno immediati ad emergere, scolpendosi indelebilmente nel mio immaginario. Piano man, la canzone-manifesto dei primi anni di carriera. Poi The stranger, New York state of mind, la zuccherosa ballata She's always a woman, la pomposa Goodnight Saigon.
Con l'avvento del Compact Disc l'album è stato ovviamente rieditato con l'aggiunta di altri pezzi (e che pezzi: Scenes from an italian restaurant; Captain Jack; The entertainer; She's got a way), guadagnandosi così un altro lungo giro sulla giostra dei miei ricordi.
 
Ma la raccolta è una fotografia importante anche dal punto di vista storico per la carriera dell'artista newyorkese, che nei successivi trent'anni perderà decisamente la strada della migliore ispirazione, arrivando a pubblicare solo altri tre album di canzoni (abbastanza prescindibili, con una piccola eccezione per Storm front) ed uno di composizioni pianistiche classiche originali (nel 2001). Anche dal punto di vista esteriore Billy risulta oggi quasi irriconoscibile, appesantito, stempiato e con il pizzetto imbiancato, sembra più un reduce che una rockstar che sfida il tempo curando maniacalmente il suo aspetto. Elemento questo che, proprio per la sua autenticità, fa simpatizzare ancora di più con l'autore di Cold spring harbor. E poi in ogni caso lo sguardo insolente Billy  l'ha conservato. Magari dietro le profonde occhiaie provocate da tante notti in bianco o da esose parcelle per l'avvocato divorzista , però c'è.
 
Con mio cognato invece le parti si sono invertite. Come tanti altri, per i quali la musica è un affare esclusivamente legato ad una fase giovanile della vita, lui si sarebbe anche fermato al Greatest hits di Billy Joel, se il sottoscritto, negli anni a venire, non lo avesse regolarmente foraggiato con massicce e continue proposte.
Che se sono diventato music alcoholic un pò è anche colpa sua. E di Billy Joel.





Billy Joel
Greatest Hits Volume I & II (1985)

sabato 6 aprile 2013

Chronicles 12

Come ho già avuto modo di sottolineare, non sono un fumatore professionista. Sono anni che me ne faccio una/due al giorno e che se rimango senza pazienza. Mi definisco,canzonandomi, uno che fuma per darsi un tono, tipo tredicenne sfigato. Ne consegue che non ho neanche una marca di sigarette preferita, probabilmente quelle che compro più spesso sono le Marlboro che una volta si chiamavano medium e adesso non so più quale minchia di nome trendy gli abbiano affibbiato. Proprio per l'approccio scanzonato che ho con il tabagismo mi piace cambiare spesso brand e quasi sempre lo faccio in favore dei pacchetti dalle forme e dai colori più accattivanti, disinteressandomi del blend del tabacco. 
L'altra sera, ad un distributore automatico (per inciso, io potrei passarci le ore, davanti ai distributori automatici di paglie: tutti quei pacchetti sfarzosi e colorati ... Ok,ok, esco dalla modalità Homer Simpson ) ho selezionato le Lucky Strike "Click and roll", solo ed esclusivamente per l'eleganza del flat box nero con i profili azzurri. Ebbene, con mia grande sorpresa ho scoperto un'innovazione tecnologica clamorosa: la sigaretta convertibile! Essa può infatti essere fumata normalmente, ed ha il gusto consueto delle Lucky, ma se si esercita una pressione su un punto preciso del filtro fino a sentire un click, la paglia sprigiona un fresco aroma alla menta, causato dalla rottura della sfera azzurra che vedete nell'immagine. La cosa è senza dubbio poco adatta ai fumatori seri, che inorridiranno al solo pensiero, e forse più pensata per le fumatrici. A me comunque piacciono. Sarà per via della mia pronunciata componente femminile...

venerdì 5 aprile 2013

80 minuti di Joe Bonamassa

Sono due gli aggettivi che meglio si addicono a Joe Bonamassa (New Hartford, NY): talento e prolificità. Il chitarrista rock-blues, classe 1977, ha infatti cominciato ad incidere nel 2000 all'età di ventitré anni (con l'album A new day Yesterday) e da allora non si è più fermato, collezionando dieci album a suo nome, tre con il supergruppo dei Black Country Communion (con Glen Hughes e Jason Bonham) e due con la singer Beth Hart oltre a svariati dischi dal vivo. Risulta evidente la difficoltà di compilare una playlist a fronte di cotanto materiale a disposizione e in effetti quella che ho preparato non ha l'ambizione di essere esaustiva, ma solo di fungere da introduzione ad un talento che con una lunga gavetta e la passione ha superato altri coetanei (su tutti direi Johnny Lang e  Kenny Wayne Shepherd) contendenti alla palma di miglior guitar hero rock-blues bianco.
 

1) Who's been talking
2) Miss you, hate you
3) Palm trees, helicopters and gasoline (*)
4) Seagull (*)
5) Jockey full of burbon
6) The ballad of Joe Henry
7) Asking around for you
8) Jelly roll (*)
9) Mountain time
10) Woke up dreaming
11) One last soul (**)
12) Don't explain (***)
13) Slow train
14) Dust bowl
15) Dislocated boy
16) Lonesome road blues
17) Wild about you baby
18) Richmond (*)

* Live from An Acoustic Evening at the Vienna Opera House

** with the Black Country Communion

*** with Beth Hart

giovedì 4 aprile 2013

GoT!!!



E' finalmente iniziata la terza stagione di Game of Thrones. E devo dirlo, tutto il resto è già diventato terribilmente noioso.

mercoledì 3 aprile 2013

The Croods


Rispetto alle nostre abitudini è passato del tempo dall'ultima volta che con Stefano siamo andati al cinema. Sarà stato un pò per questo o forse perchè la sala prescelta è stata la splendida Energia dell'Arcadia di Melzo, ma I Croods ci ha fatto passare due ore (scarse) di allegria. All'inizio eravamo indecisi tra il film d'animazione e il kolossal Il cacciatore di giganti, poi la mia preoccupazione su ipotetiche scene paurose del secondo titolo ha prevalso (non è escluso un recupero nel week-end, anyway).
Tornando ai Croods, la pellicola Dreamworks è a mio avviso ben fatta, si tiene alla larga dal modello preistorico/moderno tipo Flinstones e ci presenta una famiglia di veri e propri cavernicoli che passa la maggior parte del tempo a nascondersi dalle bestie (e sono tante) che stanno posizionate più in alto di loro nella catena alimentare. La tattica più usata nelle situazioni di pericolo da Grug, il capo famiglia, è quella di afferrare prole, moglie e nonna e lanciarli lontano dal pericolo. Le cose cambiano quando Hip, l'adolescente ribelle del gruppo, incontra Guy, un ragazzo più evoluto che si sta allontanando da quel lembo di terra convinto che stia per scatenarsi "la fine del mondo".
Il ritmo è buono (vedi la scena iniziale della caccia), i characters congrui, i personaggi comici (quasi sempre buffi animali preistorici) appropriati, i momenti divertenti ben distribuiti con quelli strappalacrime.
Ecco, magari si paga qualche debito all'Era Glaciale, ma insomma, nella cinematografia vi sono plagi peggiori.

lunedì 1 aprile 2013

New wave of american country music, 11

Old Man Markley
Down side up (2013)


Gli Old Men Markley sono un pò fuori zona rispetto alla bible belt americana, habitat naturale del country rurale. La band (sette elementi, due donne e cinque uomini) è infatti basata a Los Angeles e musicalmente parte dal blugrass per ampliare il proprio raggio d'azione al folk da combattimento, con un attitudine aggressiva che gli ha fatto guadagnare il titolo di punker del blugrass, appunto.

Per la verità, rispetto all'esordio di Guts n' teeth, rilasciato due anni fa, questo Down side up prova ad uscire dal recinto di quell'etichetta alternativa, toccando sovente momenti più convenzionalmente country 'n western. Certo l'opener Blood on my hands riprende esattamente il discorso là dove il furioso banjo di For better for worse, del disco precedente, l'aveva interrotto. E' questa la versione dei Markley che personalmente prediligo, veloci, precisi, guasconi. Ma già dalla successiva Reharsal (anch'essa molto bella, per la verità) risulta evidente come al collettivo interessi raccordarsi anche con la parte più tradizionale del loro discorso musicale. Così, allo stesso modo, non sfigura Come around here, un bel passaggio dixieland, con tanto di fiati, cantato dalla fiddler Katie Weed, la square dance di Hard to understand o il blugrass minimale di Beyond the moon. Tanto per chi preferisce la caciara c'è ancora soddisfazione nell'ultima parte del disco, tutta orientata alla velocità (Hand me down, la title track e Fastbreak sulle altre) fatta eccezione per Too soon for goodnight, classico western valzer da epilogo.

Nel complesso mi sembra che con Down side up gli Old Man Markley abbiano cercato di coniugare il loro furore giovanile con una scrittura più matura ed un sound maggiormente accessibile ai normali fruitori di questi generi. Ci sono anche abbastanza riusciti, la qualità delle composizioni è buona, con qualche picco sopra la media. Attendiamo il prossimo passo per capire meglio la direzione della band. Per adesso bene così.

7/10