mercoledì 29 gennaio 2014

The Newsroom, stagione uno


Ecco, capisco che un autore come Aaron Sorkin possa dividere. Ma mica poco eh. Proprio tracciare un solco profondo tra estimatori e critici. Lo dico avendo visto, di suo, solamente questo The Newsroom e nulla della vasta produzione ad esso antecendente (che per la televisione risponde principalmente al nome di Sports Night e The West Wing) ma rimanendone ugualmente spiazzato. Poi mi hanno spiegato che lui lavora così: alternando cioè momenti di grande spessore ad incursioni nel sentimentale più cheap nonchè nella lacrima facile, e mi sono rassegnato.
In The Newsroom la prima vocazione di Sorkin si traduce in una critica feroce ma sempre brillante ed argomentata alle reti all news e al sistema di informazione americano in genere. Un misurato ma spettacolare Jeff Daniels interpreta Will McAvoy, anchorman di punta della Atlantic Cable News, repubblicano convinto ma molto critico verso l'ala più radicale del partito (il cosiddetto tea party) e quindi verso la deriva atrocemente populista da loro intrapresa. 
L'orientamento meno raffinato dello sceneggiatore si manifesta invece nel suo tratteggiare personaggi femminili che sanno alternare esclusivamente profili smorfiosetti ad atteggiamenti sempre sull'orlo dell'isteria, risultando così poco credibili e, alla lunga, irritanti. Allo stesso modo risultano poco plausibili e fastidiose le storie d'amore belle ma costantemente impossibili che infarciscono la struttura del serial.

Ad ogni modo, se volete la mia opinione, fatta la tara dei difetti, il saldo della bilancia è ampiamente in attivo. Lo stratagemma di usare una personalità televisiva dichiaratamente di destra permette agli autori di spingere a fondo il pedale della critica verso il republican party (e le lobby che lo sostengono) senza risultare troppo di parte. 
Un esempio su tutti dell'ottima commistione tra vero e finzione: in un episodio McAvoy/Daniels propone ai candidati alle primarie repubblicane un dibattito vero, con approfondimenti che vadano oltre la stantia sloganistica di queste occasioni, prevedendo di incalzarli sulle loro contraddizioni con lo scopo di far emergere dalla sfida le personalità più autorevoli del partito e pertanto meglio attrezzate a sfidare Obama. Ovviamente di fronte alla proposta i portavoce dei candidati fuggono a gambe levate e così, quando su un'altra rete va in onda il dibattito (realmente trasmesso in America), dove la domanda di punta del conduttore ai candidati è chi preferiscono tra Johnny Cash e Elvis Presley, appare chiaro che ogni Paese ha il suo Bruno Vespa.

Sono già proiettato verso la seconda stagione.





lunedì 27 gennaio 2014

MFT, gennaio 2014

MUSICA

A volte cavalco l'onda della retromania musicale al punto di ritrovarmi a pensare che produrre nuova musica e impiegare tempo per ascoltarla sia un esercizio totalmente inutile. A cosa serve comporre nuove canzoni folk, country, metal, pop, punk quando il meglio di questi generi è stato già, abbondantemente, partorito? So di essere quantomeno un pò incoerente, visto che l'anno passato ho recensito (a tempo perso) una cinquantina di nuovi album e sono reduce da una lunga classifica dei migliori di essi, ma se ci pensate bene è difficile darmi torto.
Prendete Unearthed, cofanetto postumo di Johnny Cash che raccoglie numerosi inediti delle incisioni con Rubin (dopo la morte della moglie June Carter il Man in black, anche lui gravemente malato, si è barricato in sala di incisione dove è rimasto fino alla sua dipartita): più lo ascolto e più mi convinco che tutto quello che mi serve è lì dentro. Mi faccio una playlist della produzione Aerosmith anni settanta (che a breve posterò) e sono felice come un maiale nel fango. Per merito dell'influenza mi ritaglio un pomeriggio a casa da solo e tolgo un pò di polvere al giradischi con Raising Hell dei RunDmc, Night songs dei Cinderella, 461 Ocean Boulevard di Clapton, Yellow moon dei Neville Brothers. Ci prendo gusto e accendo il lettore cd: 2pac, i Cream, i Rush, Jeff Beck, Paul Simon, gli Yardbirds. 
Alla fine questa, insieme all'eccezione High hopes di Springsteen, diventa la playlist "depurativa" di gennaio. Una specie di terapia post- sbornia dopo gli eccessi di fine anno.

VISIONI

Finalmente è arrivato True Detective (McConaughay e Harrelson). 

LETTURE

Steve Turner, Johnny Cash

venerdì 24 gennaio 2014

Dexter, stagione 8 (final season)


Quando ho iniziato a seguire Dexter il mondo dei serial televisivi non era ancora giunto al ruolo predominante che riveste oggi nella cultura popolare. Al netto di qualche eccezione i grandi attori di cinema se ne tenevano alla larga; le produzioni televisive erano ancora parenti povere di quelle del grande schermo e, in generale, non godevano dell'attenzione quasi maniacale rovesciata su di esse nei giorni nostri.
 
Questo per dire che in otto anni possono succedere un sacco di cose e Dexter, una serie nata su basi noir ma che parlava di serial killer anche come metafora della personalità nascosta delle persone, spesso sconosciuta perfino alla cerchia più stretta di conoscenze, ha progressivamente abbandonato allusioni e allegorie per concentrarsi esclusivamente sul suo profilo "crime". Per carità, niente di male in questa scelta: la serie ha avuto buoni riscontri e si è rivelata un ottimo intrattenimento per tutto questo tempo, ma non è mai riuscita ad entrare nel novero di quelle per le quali trattenevo il fiato in attesa dell'annata successiva.
 
Era noto che la saga si sarebbe conclusa proprio con la stagione otto. Così, visto che la precedente era finita con un buon cliffhanger, un minimo di curiosità su come gli autori potessero gestirlo era assolutamente giustificata.
Ebbene, nel pieno rispetto della tradizione di fiction americana,  la fine si raccorda con l'inizio della storia.
Dal passato di Dexter salta perciò fuori la dott.ssa Vogel (Charlotte Rampling), psicologa che si rivela essere la mente dietro al famoso codice, usato da Dex su indicazione del padre per incanalare verso obbiettivi "meritevoli" le sue pulsioni omicide. La cosa è forzata, ma, nell'ambito di una fiction, molto più plausibile di troppe resurrezioni usate, ahimè, in altri ambiti da showrunners in vuoto cosmico di idee.
A parte questo espediente narrativo, per buona parte della stagione (almeno fino all'episodio 8/12) non si respira un clima da ultimo capitolo, poi, tra un omaggio non si sa quanto voluto a Dario Argento (l'uscita di scena della Vogel), l'ennesima ridefinizione del rapporto tra i fratelli Morgan e il ritorno di Hannah, assistiamo ad un'accelerazione che ci conduce in effetti all'agognato epilogo.
 
Onestamente le uniche critiche che muovo agli sceneggiatori sono relative al poco coraggio dimostrato nel gestire il destino del protagonista: è molto suggestiva l'inquadratura che conclude episodio, stagione e serie, ma, prima ancora che deludente, la situazione che essa riassume appare davvero poco verosimile.
Per il resto lo show ha palesato gli stessi punti di forza (sempre meno via via che trascorrevano anni e stagioni) e di debolezza (uno per tutti: la ripetitività degli schemi cardine della narrazione) degli ultimi tempi, dimostrando, se ce ne fosse ulteriormente bisogno, che era giunto il momento di chiuderla qui.
 
 

mercoledì 22 gennaio 2014

Joaquin Phoenix, I'm still here


Nel 2009, durante la promozione del film Two Lovers, Joaquin Phoenix, già reduce dalle ottime affermazioni di Walk the line (il bio su Johnny Cash); We own the night e Reservation road, annuncia al mondo la sua decisione di ritirarsi dalla recitazione per dedicarsi esclusivamente alla carriera di cantante hip hop. 
Nell'anno di vita che originerà da quella affermazione Phoenix non sarà abbandonato nemmeno per un momento dalle telecamere del regista Casey Affleck con il quale l'attore registra un documentario in stile reality.
Così assistiamo alla spirale di decadenza di Jaquin che ingrassa a vista d'occhio (e già di norma non è che avesse tutto sto fisico), si fa crescere la barba e ahm, sostanzialmente smette di curare l'igiene personale.
Nel tentativo di debuttare come artista rap si fa (faticosamente) ricevere da Sean John Combs (Puff Daddy, P. Diddy...) che lo tratterà con la stessa gentilezza di una merda sotto la suola di una scarpa nuova. Nel privato J.P. viene mostrato come uomo dissoluto e dispotico nei confronti dei suoi due aiutanti tuttofare, quotidianamente umiliati dall'attore. Non mancano le droghe e il sesso: erba a profosione, coca e puttanoni convocati nelle stanze d'hotel nelle quali l'attore vive insieme al suo entourage. 
Il ritratto che emerge è quello che rispecchia i peggiori stereotipi della star hollywoodiana. I giornali di gossip, gli opinionisti televisivi e quelli sulla rete lo fanno a pezzetti molto piccoli, il suo look trasandato diventa una parodia anche da parte dei colleghi (incluso Ben Stiller, che si prende la rivincita per un affronto personale), uno dei due aiutanti, esasperato, si vendica di tante umiliazioni mettendo in pratica l'epiteto metaforico "I shit on your face" e non manca nemmeno la rissa al concerto hip hop che Phoenix tiene in un club di Miami.  Il culmine della sua spirale autodistruttiva è trasmessa in diretta a beneficio di tutti gli states. Avviene nello show di uno sgomento Dave Letterman  (qui con i sottotitoli in italiano) che si trova davanti un Jaquin Phoenix strafatto e intontito che a malapena gli risponde a monosillabe.

Ecco, io vi consiglio di guardare questo folle, stralunato e spiazzante documentario così. Senza cercare informazioni o indizi in rete. Questo è il modo in cui l'ho visto io, traendone sorpresa e godimento. Dopo averlo fatto potete dunque passare a quest'altra ospitata da Letterman, avvenuta l'anno successivo a quella disastrosa che ha fatto il giro del mondo.

In definitiva questo esperimento di Affleck e Phoenix, per quanto non privo di difetti, riesce comunque nell'intento di essere opera globale, di abbracciare cioè cinema, star system, televisione, music biz, internet e media americani attraverso un patchwork a volte greve ma dannatamente plausibile. Da vedere.


lunedì 20 gennaio 2014

Hank 3, A fiendish threat


Durante i suoi concerti, arriva sempre il momento in cui Hank III si toglie dalla testa lo sformato cappello da cowboy e scioglie la lunga treccia dei capelli. E' il segnale che il set country è terminato e che inizia quello punk/metal/psychobilly. Questa dinamica, radicata da tempo nei live act di Williams terzo, è riproposta paro paro nelle sue uscite discografiche, per le quali, parallelamente alle release country, da più di dieci anni, esiste una discografia parallela di musica pesa.

Quella per gli anfratti più malsani del rock estremo è una passione che H3 coltiva da sempre, lo testimoniano le numerose scorribande nel settore: i bootleg a tema dei primi anni zero; l'unofficial album This ain't country (oggetto di culto per i fans ma che l'etichetta ha pubblicato solo una volta concluso il contratto con l'artista, cambiandogli il titolo in Hillbilly Joker); la partecipazione come bassista nei Superjoint Ritual (insieme a Phil Anselmo alla voce) e come batterista negli Arson Anthem (ancora con Anselmo, stavolta alla chitarra); gli Assjack (in cui Hank suonava tutti gli strumenti), fino ad arrivare ai recenti  Attention Deficit Domination e 3 Bar Ranch.

Nessuno si è dunque meravigliato se, insieme a Brothers of 4 x 4, l'ultimo album country pubblicato, sia uscito questo A fiendish threat, annunciato come il ritorno allo stile psychobilly.
La strumentazione usata nelle registrazioni effettivamente rispetta i canoni più rigorosi di questo genere: chitarra (rigorosamente non elettrica) e contrabbasso sono percossi in maniera continua e ossessiva, la batteria è presente ma in maniera marginale, mentre la voce di Hank è costantemente filtrata con un "effetto megafono" per tutti i tredici brani dell'album. L'apertura, Can I rip you, e la successiva Different from the rest proiettano la suggestione di una versione lo-fi / post-apocalittica dei Ramones ma non sono affatto malaccio. Con la successiva There's another road ci si diverte ancora, il problema è reggere alla distanza. Sopportare praticamente lo stesso pattern (sono poche le variazioni: giusto una slide guitar ogni tanto) per tutta l'ora di durata dell'album è infatti un impresa che mette a dura prova anche il più integralista dei fan. 
Certo, non si parla di un lavoro atroce come 3 Bar Ranch e, in parte, di ADD, ma, insomma, è comunque richiesto un grande atto d'amore per arrivare in fondo d'un fiato. Diversa è l'opinione se si opera una selezione specifica di ogni pezzo:oltre ai brani d'apertura infatti si segnalano anche Face down, New identity (dall'ottimo potenziale live), e la title track. Il sabbathiano Your floor, unico lento della tracklist, arriva come la sigaretta dopo un amplesso particolarmente movimentato.

Album faticoso. Ma è anche per queste reiterate follie che amiamo Hank.



venerdì 17 gennaio 2014

Homeland, season 2 e 3


Per molti la coerenza è la virtù degli stupidi. Sarà, ma io alla mia ci tengo, per cui non farò finta di non ricordare che qualche tempo fa concludevo la recensione di Homeland smadonnando contro le regole del business televisivo che "imponevano" una prosecuzione a quel diamante perfetto che era stata la prima stagione del serial di spionaggio ispirato dalla produzione israeliana Hatufim.

In effetti per un pò ho resistito alla tentazione di vedere come andava a finire la storia tra Carrie (Claire Danes) e Brody (Damian Lewis), lasciati: lei sul letto di un ospedale psichiatrico dopo una cura a base di elettro-shock e lui in piena corsa per il Congresso USA. Poi però la curiosità ha rotto gli argini e ho ceduto. E a quel punto non ho posto più limiti alla mia vigliaccheria, sparandomi senza soluzione di continuità seconda e terza stagione per una maratona-overdose di ventiquattro puntate consecutive.

La mia opinione finale è che non esiste al mondo (o se esiste io non lo conosco) un serial televisivo che, mantenendo personaggi e plot principale, abbia la capacità di trasformare così radicalmente le proprie caratteristiche strutturali tra una stagione e la successiva come ha dimostrato di saper fare Homeland
Basta infatti un episodio della seconda per spiazzare lo spettatore con un cambio di rotta imprevedibile e adrenalinico. Gli showrunners buttano a mare l'incoffessabile segreto di Brody che ci aveva tenuto incollati al video per l'intera annata precedente e che sembrava un meccanismo narrativo irrinunciabile, per dare il via invece ad un susseguirsi di eventi avvincenti, mozzafiato e cataclismatici che prendono il posto delle atmosfere angoscianti, tese e claustrofobiche (incorniciate da una coerente colonna sonora a base di jazz glaciale) della prima stagione, fino a condurci ad un cliffhanger finale che ribalta dalla sedia soprattutto quanti (non io, per la cronaca) avevano criticato l'amarissimo epilogo della season 1.

Nemmeno il tempo di abituarsi che con la terza si cambia nuovamente pattern. Brody viene usato magistralmente ma col contagocce (in compenso Carrie maramaldeggia e si prende più spazio l'ottimo Saul/Patinkin) e la storia riparte in maniera lenta, apparentemente scollegata e con delle storylines parallele sfiancanti. 
Ma alla fine tutto torna, il destino di Brody si compie nell'unico modo possibile, dopo che l'ex marine ha compiuto una missione disperata in terra nemica. L'aggancio della sua impresa spionistica di finzione con le reali vicende di politica estera USA/Iran è soltanto l'ultimo colpo di genio di un team di autori da venerare.

Dato l'enorme successo della serie è già prevista una quarta stagione. A questo punto mi arrendo all'evidenza: sarà dura stargli alla larga.


lunedì 13 gennaio 2014

I migliori album del 2013

Ok, che il 2013 discografico mi abbia esaltato l'ho ribadito fino alla noia. La logica conseguenza di questa affermazione è la necessità di allargare un po' il tradizionale recinto da dieci titoli che di norma posto a consuntivo. Aggiungo che, al momento di decretare un vincitore, sono stato assalito dall'empasse e tentato fino all'ultimo di optare per un ex aequo  (almeno per i primi cinque posti). Alla fine la sofferta decisione è stata presa, anche se, al vertice, le incollature tra un titolo e l'altro sono davvero risibili. 
Sebbene sia superfluo chiarisco infine che la classifica è totalmente soggettiva e basata quasi sempre sul criterio della maggiore frequenza d'ascolto degli album, senza pretesa alcuna di indicare i dischi oggettivamente (ammesso che di oggettività si possa parlare, in questo ambito) migliori di questi dodici mesi. Lascio questo compito alla critica specializzata, più attenta e preparata del sottoscritto. 
Nel caso vogliate rileggere le recensioni complete, basta cliccare sul titolo dell'album.
Si parte.



15. Sturgill Simpson, High top mountain

Non fosse giunto quasi fuori tempo massimo, High top mountain di Sturgill Simpson avrebbe certamente occupato posizioni più alte della classifica. Ma guardiamo al bicchiere mezzo pieno: escludere l'honky tonk classico ma con personalità di Simpson sarebbe stato sicuramente peggio che includerlo in coda alla chart. 

14. The Strypes, Snapshot

Anche se per motivazioni diverse (Snapshot l'ho approcciato in ritardo a causa della mia diffidenza sull'onestà artistica della band), vale il discorso testè fatto per Sturgill Simpson. Cosa posso dire? L'errebì d'annata  di questi ragazzini convincerebbe anche un sordo.


13. Wayne Hancock, Ride

Eventi dolorosi (divorzio, disintossicazione) e iniziative tipiche da cinquantenni in crisi (farsi le desertiche road del sud degli States in sella ad una vecchia Super Glide) sono tornati ad ispirare Wayne Hancock, che con Ride ha riportato il suo texas swing venato di rockabilly, country e jazz ai migliori livelli.

12. Austin LucasStay reckless

L'atteso ritorno di Austin Lucas è stato, in termini musicali, più fragoroso del preventivato. La prevalenza della componente rock su quella country non ha comunque messo in secondo piano la straordinaria abilità di songwriter dell'artista, manifestata attraverso undici tracce equamente divise tra episodi elettrici e introspettivi.

11. Nick Cave, Push the sky away

Unico album della classifica a non avere beneficiato di una mia recensione. E' che con Nick Cave ho un rapporto del tutto particolare. Nel breve periodo fatico ad assimilare le sue atmosfere ma a lungo andare, immancabilmente, i suoi lavori diventano per me irrinunciabili e senza tempo. Push the sky away non fa differenza.

10. Steve Earle, The low highway

Steve Earle è ormai assunto al ruolo, riservato solo ai grandi, di detentore e diffusore della musica tradizionale americana. Il suo vestire a nuovo generi antichi (folk rurale, blues, country, cajun) è, al solito, emozionante e ineccepibile.


9. David Bowie, The next day

Persino un non adepto al culto del duca bianco come il sottoscritto non può rimanere indifferente davanti a questa raccolta di nuovi pezzi, arrivata dopo un'attesa di dieci anni. Tra malinconia e guizzi è granitica la certezza che The next day sarà ricordato tra i migliori episodi di Bowie.


8. Daft Punk, Random Access Memories

Che c'azzecca un album di dance elettronica in questa classifica da dinosauro? E se vi dicessi che in pezzi come Giorgio Moroder; Give life back to music e Instant crush ho trovato più passione di tante produzioni di rock vintage?

7. Carcass, Surgical steel

Possiamo anche accettare che i superstiti dei Carcass pubblichino un album a decennio, se il risultato finale possiede l'impatto e la spaventosa potenza di Surgical steel. Nell'olimpo dell'heavy metal.

6. Hank III, Brothers of the 4 x 4

La voglia di di Hank 3 di comunicare attraverso la musica è incontenibile e trasversale ai generi. Brothers of the 4x4 ne è la sua espressione più coerente, puntuale e prepotente.

5. Volbeat, Outlaw gentlemen & Shady ladies

Michael Poulsen riesce a portare i sui Volbeat a quel magico equilibrio fatto di rispetto della storia della band e di innovazione. Outlaw gentlemen & Shady ladies è puro, trascinante divertimento rock, in ossequio al migliore hard rock del passato.

4. Jason Isbell, Southerneastern

Sorpresona dell'anno. Non conoscevo Isbell e avevo poco praticato i Drive-By Truckers ma per fortuna le mie antenne si sono drizzate sulle frequenza di Southeastern. In caso contrario mi sarei perso il disco emotivamente più sconquassante dell'anno.


3. Bachi da Pietra, Quintale

L'unico disco italiano del lotto è anche il meno atteso. Il quinto album dei Bachi da Pietra spazia da sonorità hard-rock internazionali ad architetture musicali più nostrane, senza mai perdere di vista la coerenza del progetto.

2. The Mavericks, In time

Raul Malo è Dio. Almeno per me. A capo dei Mavericks poi la sua aurea si espande fino a rappresentare tutta la santissima trinità. Lui lo sa bene, e infatti, tra ritmi sudamericani, rock and roll e melodie da crooner, non sbaglia nemmeno una singola nota del comeback della band, trionfale cumshot atteso dieci anni dai fans.

1. Black Sabbath, 13


Nella recensione gli ho dato 10/10. Ok, ho un pò esagerato. Ma dentro quella valutazione, per una volta, ci stava tutto: la smisurata passione per questa band; l'importanza del gruppo nella storia del rock; l'attesa e la delusione per i continui rinvii della reunion; i granitici riff di Iommi; Ozzy. Ma soprattutto il nuovo materiale, così tosto ed autorevole da superare ogni ottimistica previsione.



I migliori degli anni precedenti

2007

2008

2009 parte uno

2009 parte due

2010 parte uno

2010 parte due

2011

2012



venerdì 10 gennaio 2014

New Wave of american country music: Sturgill Simpson, High top mountain

Troppo spesso per ascoltare della musica country dotata di un minimo di anima è necessario avventurarsi negli ostici terreni dell'outlaw moderno e delle contaminazioni tra generi: operazione soddisfacente, per carità, ma dagli esiti che si allontanano da quel dolce gusto popolare, componente originaria di questo genere, troppo spesso snaturata e tradita dai tanti cloni tutti uguali a se stessi prodotti in laboratorio dall'industria di Nashville.
Per fortuna, a portare una boccata di aria buona, arrivano tipi come Sturgill Simpson, che riescono a coniugare country di qualità e  presenza su CMT (Country Music Television, il potente network americano) senza dover sottostare agli abusati cliché imposti dalle major negli ultimi anni (cioè essere cantante donna, fare pop mieloso con qualche violino ogni tanto e parlare di camionisti).
E l'aspetto sorprendente di tutta la vicenda è l'apparente disinvoltura con la quale il giovane artista raggiunge l'obiettivo di accontentare sia i puristi del genere che i marpioni esclusivamente attenti alla portata commerciale del prodotto, attraverso una manciata di pirotecnici pezzi honky-tonk (Life ain't far and the world is mean; Railroad of sin; Sitting here without you; You can have the crown), la dimostrazione di saperci fare con le ballads (Water in a well; Hero; Old king coal), i sacrosanti richiami agli aspetti più old time della musica redneck (Poor rambler), ma soprattutto un'estensione vocale che potrebbe aprire presto nuove, inaspettate, strade (Van Morrison non è così lontano in pezzi come I'd have to be crazy).

High top mountain è un album  di cui si sentiva tremendamente il bisogno: un'opera apparentemente semplice ma che in realtà cela uno smisurato rispetto per questa musica regalandoci un'artista che il country potrebbe contribuire a salvarlo.

8/10
P.S. Con Sturgill Simpson chiudo ufficialmente il lotto di recensioni di album che concorrono alla classifica di migliori dell'anno. Lunedì pubblicherò il mio best of del 2013. In omaggio all'eccezionale annata musicale la lista comprenderà quindici titoli invece dei tradizionali dieci.



mercoledì 8 gennaio 2014

La terribile cineteca di Natale

Per uno come me, che un pò se ne fotte ma un pò vorrebbe passare per intenditore di cinema, ammettere di aver pagato il biglietto per delle ciofeche annunciate non è semplice. Certo, se mi chiedete cosa preferisca fare tra andare al cinema per vedere una boiata e non andarci, la mia risposta propenderà quasi sempre per l'opzione uno. Aggiungiamoci che mio figlio è entrato in quella fase per cui ogni trailer, soprattutto di film comici, è un capolavoro da non perdere e la frittata è fatta. Perciò la notizia buona è che durante le vacanze di Natale siamo andati spesso al cinema, quella cattiva sta tutta nella lista di titoli scelti.
 
Sole a catinelle. Sono convinto da tempo che Luca Pasquale Medici alias Checco Zalone viva una fase nella quale gli sia concesso tutto, anche fare film senza sceneggiatura, con battute telefonate e di essere contemporaneamente campione d'incassi e ben considerato dai salotti buoni della sinistra. Capita eh. Ma chissà che invidia proveranno i Boldi & De Sica coi loro tanto vituperati cinepanettoni...
Piovono polpette 2. Unico titolo del lotto che poteva aspirare ad una recensione autonoma. Peccato che mi sia annoiato a morte e, complice forse la fase digestiva del pranzo di Natale, mi sia quasi lasciato andare ad una pennica.
Colpi di fortuna. No, beh, sapevo benissimo di andare incontro a un'ora e mezza di battute atroci ed espedienti che sarebbero apparsi obsoleti già ai tempi di Buster Keaton. Giuro che l'ho fatto solo per il pargolo.
Un boss in salotto. Divertenti, anche se facili, le gag con Rocco Papaleo, nei personaggi la Cortellesi, Argentero e la Finocchiaro. Anche qui però sceneggiatura esile esile e finale tagliato con l'accetta.

Per fortuna le feste sono finite. 

lunedì 6 gennaio 2014

The Strypes, Snapshot


La musica Monty, concentrati sulla musica. 
Diversamente dovresti convincerti che oggi, a.d. 2013, quattro ragazzi irlandesi dai 16 ai 18 anni, invece di mettersi diligentemente in fila per le audizioni X-Factor allo scopo di diventare i prossimi One Direction, abbiano imbracciato le chitarre per puntare al trono (effettivamente vacante) degli Yardbirds del nuovo millennio. Difficile da credere. Sento puzza di operazione orchestrata da qualche major, che si mette in scia al movimento revivalista che tanti risultati sta producendo in questi ultimi tempi. 
E allora perchè vi faccio perdere tempo con una recensione? Semplice, perché, accidenti, quando metto il dischetto nel lettore tutte le mie elucubrazioni da matusa che pretende di saperla tutta sul music biz spariscono all'istante. Gli Strypes (anche il vezzo della "y" sbagliata, come i Byrds si sono voluti concedere!) infatti fanno un casino del demonio, hanno un tiro irresistibile, sono trascinanti e producono musica allo stesso tempo fresca,datata e cool.

I riferimenti, come anticipato, sono ai sessanta e al ryhthm and blues bianco inglese, con alcuni doverosi richiami al blues e un'armonica che ogni tanto si intromette spostando le atmosfere verso il pub rock. 
Tutto richiama il periodo della swingin London: gli arrangiamenti, la voce di Josh McClorey, i testi, rigorosamente spensierati quasi sempre rivolti ai rapporti con l'altro sesso, per non parlare del look dei quattro che sembrano usciti da Austin Powers: Goldmember. L'album è una freccia da meno di quaranta minuti che, una volta scoccata, fatichi a rimettere nella faretra e che anzi ti ritrovi a far ripartire da capo ogni volta che termina. Dall'opener Mystery man, passando per Blue collar Jane e She's so fine non c'è un attimo di tregua fino al lento bluesato Angel eyes, ma poi si ricomincia subito a tavoletta e non ci si ferma più fino alla fine. Rolling Stones (I can tell e un'altra mezza dozzina di pezzi), Chuck Berry, i primi Who, i Dr. Feelgood (She's so fine; What the people don't see) e un pò anche i Beatles (What a shame) ringraziano ringalluzziti, ma vengono santificati anche Bo Diddley attraverso la micidiale cover di You can't judge a book by the cover e un pò inaspettatamente Nick Lowe, celebrato con Heart of the city.

Lo ammetto: le perplessità che ho espresso in premessa mi avevano tenuto alla larga da questo disco, nonostante giornalisti e blogger che seguo ne avessero, da subito enfatizzato la qualità. Sono felice di aver cambiato idea in tempo per inserirlo nei migliori del 2013. E anche se gli Strypes si rivelassero un fake della portata dei Milli Vanilli poco male, dopotutto Girl you know it's true resta comunque una grande canzone e lo stesso vale per tutto Snapshot
Come dicevo, in ultima analisi conta la musica. Tutto il resto è di contorno.

8/10

domenica 5 gennaio 2014

Chronicles 39

Era da un pezzo che Stefano mi chiedeva di fare un viaggio sul treno ad alta velocità. Mancando un'occasione specifica per accontentarlo, ho deciso di crearne una su misura e così ho acquistato la tratta più vicina (ed economica) al preciso scopo di fargli fare l'esperienza. Perciò venerdì mattina siamo partiti dalla Centrale di Milano in direzione Torino Porta Nuova a bordo di un Frecciarossa. Per una volta tutto è girato per il verso giusto, le carrozze erano semivuote e abbiamo potuto "allargarci" cambiando di posto più volte fino a trovare quello che ci aggradava. Poi abbiamo preso una cioccolata calda al bar presso la carrozza cinque e ce la siamo gustati mentre gaudenti indicavamo lo schermo che riportava la velocità di trecento all'ora. 
Anche il tempo è stato miracolosamente clemente, venerdì infatti è stato l'unico giorni di questi ultimi, e in previsione, dei prossimi, a non essere flagellato da acqua e vento. 
Così ci siamo fatti una lunga passeggiata per via Roma, Piazza Statuto, Piazza Carlo Alberto, Via Garibaldi, Piazza Castello, Palazzo Reale, la Mole, godendoci la bella città e l'atmosfera da ultimi giorni di vacanza.
Una bella giornata insomma, di quelle che per una volta ti fanno pensare di averla azzeccata. Come genitore, intendo.


venerdì 3 gennaio 2014

Nine Inch Nails, Hesitation Marks


Quella per i Nine Inch Nails è una passione che non è mai stata feroce, ma che aveva raggiunto un discreto livello di intensità con The downward spiral (1994), si era stabilizzata con The Fragile (1999) per poi mitigarsi fino a diventare progressivamente marginale. Non che nell'ultimo orizzonte temporale Trent Raznor, braccio e mente dietro il progetto NIN, sia stato un fenomeno di prolificità, eh. Per dire, dall'ultima release ad oggi ha fatto passare cinque anni, trascorsi tra vari progetti collaterali (soundtracks per film, musica per videogiochi, etc).
Ho iniziato ad ascoltare Hesitation Marks inseguendo una vacanza dai miei canonici perimetri musicali, che di norma prevedono l'esatto contrario dell'offerta NIN: registrazioni in presa diretta, sudore, calli sui polpastrelli e proliferazione di strumenti a corda, e mai scelta si è rivelata più azzeccata.

Parliamo infatti di un lavoro che trova nell'elettronica, più che nell'industrial rock (madonnina, che termine desueto!) la sua consona dimensione, con rimandi al synth-pop più integralista, al drum and bass e ad artisti più vicini ai primi Depeche Mode, ai New Order, agli Underworld, addirittura al Tricky di Pre Millennium Tension, piuttosto che ai Ministry, i Fear Factory o i Godflash, ai quali la band era associata vent'anni fa.
Curioso che con queste coordinate musicali invece di trovare nei crediti dell'album i nomi dei nuovi genietti dell'elettronica (mi aspettavo chessò, un James Blake) trovino posto dei collaudatissimi musicisti "analogici" come l'esperto turnista Pino Palladino al basso e, a sorpresa, Lindsey Buckingham dei Fleetwood Mac alla chitarra, oltre naturalmente alla prevedibile schiera di artisti che stanno dietro ai diversi sintetizzatori.

Le tracce hanno, almeno per me, una forte componente ipnotica: Copy a; Came back haunted e Find my way sono pezzi quadrati e potenti che ti fanno pentire di non avere in macchina un impianto decente che sostenga a dovere i toni bassi, mentre, a metà tracklist, deputata a spezzare la claustrofobia delle atmosfere dell'album, è piazzata Everything, la canzone maggiormente legata ad architetture musicali tradizionali (con una chitarrina che fa tanto Cure periodo Wish) ma, paradossalmente (visti i miei gusti), anche il pezzo più scontato e fuori posto della raccolta. A seguire ancora un terzetto di grandi pezzi: Running, I would for you e In two (queste ultime due i migliori raccordi al sound NIN che fu).
Alla lunga (il timing supera di slancio l'ora di musica) probabilmente emerge nell'ascoltatore un pò di stanchezza, ma ciò non smuove di una virgola l'opinione più che positiva rispetto al lavoro. 
E' scontato ribadire che non ci sono più i Nine Inch Nails di una volta, ma se Hesitation Marks è il prezzo da pagare per evitare di scivolare nell'affollatissima deriva autoreferenziale della musica rock, beh, si tratta di un compromesso ad alto tasso di dignità.

7,5/10

giovedì 2 gennaio 2014

Vita di Pi



Peccato esserselo perso al cinema, questo Vita di Pi: su grande schermo sarà stato spettacolare. Purtroppo all'epoca della sua uscita nelle sale pensavo fosse troppo lungo (oltre due ore il timing) e peso per farlo vedere a Stefano e invece, nonostante le mille distrazioni legate alla visione televisiva, il film di Ang Lee ha appassionato tutta la famiglia, già a partire dalle prime inquadrature, ambientate in un'India fiabesca, affollata e coloratissima, filtrata attraverso gli occhi vispi e intelligentissimi di un bambino (chiamato malauguratamente Piscine in onore della passione dello zio per la piscina pubblica di Parigi, che dovrà sudarsi con strategia e ingegno il soprannome di Pi), passando per tutta la parte centrale ambientata in mare aperto, fino all'inaspettato e commovente finale. A livello di film per ragazzi, che si pone l'obiettivo di essere avvincente, meravigliare e magari lasciare anche qualche messaggio positivo (da questo punto di vista le sequenze sulla pluralità di dottrine religiose assecondate da Pi bambino è deliziosa) non riesco proprio a trovargli difetti.

mercoledì 1 gennaio 2014

New year's day chronicles

Se mi chiedete cosa mi aspetti dal 2014, per una volta nella vita posso rispondere con certezza: sarà un anno di merda. La ragione di tanto pessimismo è presto detta: tra febbraio e luglio entrerà nel vivo (nel vero senso della parola, visto che sarà tipo una vivisezione, un'operazione senza anestesia) la trattativa che vedrà il fallimento certificato della mia azienda e, se tutto andrà bene, la sua rinascita all'insegna della sottrazione di norme, tutele, salario. 
Mio malgrado, da RSU, sarò parte della delegazione trattante e da uno a dieci vorrei essere in un qualunque altro posto undici. 
Questo se tutto andrà bene. Se qualcosa dei mille elementi che devono sincronizzarsi alla perfezione per tutelare l'occupazione dovesse saltare, allora sì che la merda arriverà al ventilatore. 
Il mio pessimismo è talmente concentrato che ho espresso pubblicamente il desiderio di addormentarmi stasera e svegliarmi il primo gennaio del '15: lieto fine o disastro, almeno non sarò stato costretto a viverlo e gestirlo.
E se qualcuno commenta "massì, pensa alla salute" lo uccido.