venerdì 14 febbraio 2014

Johnny Cash 1994/2003: un tributo

Ho sentito parlare spesso dalla critica e da molti artisti (ad esempio Manu Chao) di Bob Marley come un medico dell'anima, uno che attraverso la propria musica lenisce le sofferenze dello spirito. Pur apprezzando il famoso rastaman, non sono mai riuscito ad entrare dentro la sua arte così a fondo per arrivare a percepirne i miracolosi effetti. Questa meravigliosa metafora veste però a pennello il mio rapporto con molta della musica di  Johnny Cash , soprattutto quella del suo ultimo periodo artistico, segnato dalla collaborazione con il produttore Rick Rubin. Vale a dire dunque i quattro American Recordings registrati in vita, lo splendido cofanetto Unearthed, A hundred highways e Ain't no grave, usciti postumi: tutti lavori che mi sanno riappacificare con me stesso come poca altra musica esistente. Tutti album che avevo ascoltato molto al momento della loro uscita, ma dai quali, si sa come vanno queste cose, solo oggi riesco a succhiare fino al midollo la vera essenza.

Unearthed è composto da quattro cd (più uno che raccoglie il meglio della precedente produzione rubiniana) e raccoglie la parte più significativa delle takes accumulate durante le registrazioni dei quattro volumi di American Recordings. Ma guai a chi parla di scarti, basta leggere la tracklist dei singoli dischi per rendersi conto dell'assoluta bontà del materiale. 
Si parte con una manciata di nuove versioni di canzoni immortali dell'artista, come Long Black Veil, Understand your man (composto da Cash sulla melodia di Don't think twice it's alright di Dylan), Waitin' for a train, I'm going to Memphis, Dark as a dungeon, per passare poi alle cover, punto di forza consolidato della produzione storica dell'uomo in nero, ulteriormente rafforzato dagli orientamenti di Rubin (un esempio su tutti Hurt dei NIN). Qui la scelta è più prosaica e meno avventurosa: in linea di massima viene rispettato il background storico di Cash e manca dunque l'intuizione che sbalordisce, ma lo stesso quanta meraviglia nell'ascoltare pezzi come Pochaontas (che si raccorda magicamente con il legame tra i nativi americani e Johnny) e Heart of gold, entrambe di Neil Young; il rockabilly Down the line e Everybody's tryin to be my baby, rispettivamente degli amici di gioventù Roy Orbison e Carl Perkins; T for Texas di Jimmy Rodgers, standard ripreso da decine di gruppi southern (leggendaria la versione dal vivo dei Lynyrd Skynyrd), attraverso la quale Cash chiude i conti con l'ispirazione originaria della più controversa strofa di Folsom Prison Blues ("I shot a man in Reno / Just to watch him die"), proveniente da questo vecchio blues ("I'm gonna shut poor Thelma / Just to see her jump and fall"). 
Per The devil's right hand il percorso va al contrario. Quanto Johnny Cash c'è dentro questa canzone di Steve Earle? Parecchio a giudicare dal testo e dalla naturalezza con cui l'anziano artista se ne appropria.
Il punto più alto del terzo cd è senza dubbio il duetto con Joe Strummer su Redemption song di Bob Marley (ecco che ritorna The Soul Doctor). Un'interpretazione toccante, una struggente fotografia color seppia scattata da due autentici outlaw della musica, un salmo da impostare con la funzione repeat del lettore per permettergli di impregnare le mura di casa, indifferenti al trascorrere del tempo.
Siamo in una sorta di irraggiungibile stratosfera delle emozioni, ma Father and son di Cat Stevens, interpretata insieme a Fiona Apple e Cindy, cantata con Nick Cave riescono ancora a volare altissimo. L'ultimo cd del cofanetto, l'unico del lotto ad essere pubblicato anche autonomamente, raccoglie quindici canzoni a sfondo religioso, insegnate al giovane Cash dalla madre, da qui il titolo My mother's hymn book. La magnifica I shall not be moved (che con il testo modificato diventerà una celebre protest song durante le manifestazioni degli anni sessanta/settanta) e I'll fly away rappresentano bene lo spirito del disco, cantato da John con il solo accompagnamento della chitarra. 

A hundred highways e Ain't no grave, rispettivamente capitolo cinque (2006) e sei (2010) degli American Recordings, contengono materiale registrato durante le ultime settimane di vita dell'artista, quando Cash era gravemente malato e distrutto dalla perdita della moglie June, elementi questi che riverberano in modo evidente sulla voce di John, mai così debole e sofferente, ma forse proprio per questo ancora più empatica e capace , grazie a pezzi come Help me, God's gonna cut you down, Ain't no grave, di riscaldare il cuore dell'ascoltatore.

Tra circa un mese uscirà l'album inedito Out among the stars, registrato nei primi ottanta, in un periodo tra i meno ispirati nella carriera dell'uomo in nero e con la fiducia (e di conseguenza il supporto) dell'etichetta Columbia ai minimi termini. Potrebbe dunque, nonostante le collaborazioni con Dylan, June Carter e Waylon Jennings, non essere esattamente un capolavoro. Ma è mia ferma convinzione che il disco conterrà sicuramente qualcosa: una canzone, un testo, una strofa, un'interpretazione in particolare che lo renderà speciale, unico. 
Perchè chi ha la capacità innata di guarire l'anima delle persone riesce sempre a farla venir fuori, anche nelle circostanze più sfavorevoli.

1 commento:

Blackswan ha detto...

Che dire? Chapeau ! Come Cash nessuno mai ( a parte,il boss, ovviamente ) :)