lunedì 27 ottobre 2014

I Guardiani della Galassia


Non so a chi sia venuta l'idea di premiare, attraverso la trasposizione cinematografica, le gesta di questi super-eroi Marvel dalla scarsissima rilevanza fumettistica  ma, chiunque egli sia, dalle pagine virtuali di questo blog mi faccio promotore di una petizione mondiale: santo subito!
Coloratissimo e scoppiettante, dentro questo film gli appassionati degli albi Marvel possono trovare gran parte del mondo extraterrestre della casa delle idee, per giunta non stravolto nella resa estetica: personaggi del calibro di Thanos, Il Collezionista, Ronan o la guerrafondaia razza Kree, che tanto ci hanno affascinato attraverso lunghe saghe dei Vendicatori o di Silver Surfer, sono resi così come li avremmo sempre voluti, per nostro massimo godimento. Ma è festa grande anche per lo spettatore comune, a fronte dei continui rimandi ai classici della fantascienza su grande schermo ed in virtù di un mix vincente tra azione e commedia che colloca idealmente la pellicola tra Indiana Jones e Guerre Stellari.
Ovviamente il merito principale del successo del film è da attribuire ai cinque Guardiani: Starlord (interpretato da Chris Pratt); Gamora (Zoe Saldana); Drax (il wrestler Dave Batista), alla maestosa cazzimma di Rocket Racoon (in originale doppiato da Bradley Cooper), che deve il suo nome all'omonimo pezzo dei Beatles sul White Album (non lo dicono nel film ma fidatevi), e alla serafica calma zen di Groot (doppiato da Vin Diesel). Questi ultimi due sono indubbiamente la carta vincente della produzione, l'elemento conduttore di emozioni semplici ma trascinanti, i character che prendono per mano lo spettatore per tutta la durata della proiezione, fino ai titoli di coda.
Gesù, mi viene il mal di testa a pensare alle potenzialità del preannunciato sequel: gli Skrull, Silver Surfer, Nova, Warlock, Thanos e le gemme dell'infinito, Galactus, Howard the Duck!
 
Non perdete tempo, I Guardiani della Galassia è IL film Marvel da vedere.

sabato 25 ottobre 2014

Chronicles 41

Primo post pubblicato dal cellulare mentre sto tornando da Roma, dove oltre un milione di persone hanno manifestato con la Cgil. Mentre la stanchezza sta prendendo il sopravvento mi ritrovo a sperare che questa prova di forza (o meglio, di riequilibrio delle forze rispetto alla tracotanza di Renzi) non venga sprecata. Dormo.

lunedì 20 ottobre 2014

Billy Joe Shaver, Long in the tooth

File:Billy Joe Shaver - Long in the Tooth.jpg

Ha tutto il diritto di essere stanco ed irascibile Billy Joe Shaver, classe 1939 e uno dei padri del movimento outlaw country. L'ha imparato nel peggiore dei modi quello spettatore cafone che dopo avergli rivolto un paio di epiteti di troppo durante un'esibizione è stato raggiunto da una pressante richiesta di scuse accompagnata da qualche proiettile sparato da una pistola che Billy porta sempre con sè. Ma non è per paura delle scomposte reazioni di Shaver se Long in the tooth, primo album di materiale inedito dopo sette anni, ha avuto riscontri generalmente positivi. E' che dischi così ormai li fanno solo quelli che questo genere l'hanno inventato, non esiste un grosso movimento revivalista che riproponga pezzi di questa natura, neppure da parte degli artisti che pure si mantengono integri rispetto all'imperante dinamica mainstream del country. E se c'è qualcuno che può mettere il dito nella piaga delle nuove generazioni sono proprio Billy Ray e Willie Nelson, che aprono in duetto il lavoro con Hard to be an outlaw, assecondando un canone musicale consolidato con una coppia di voci logorate dagli stravizi e dall'età (156 anni in due...) ma più potenti ed evocative che mai. La successiva title track ha un ritmo decisamente più incalzante e si fa apprezzare la scelta inconsueta di utilizzare tra gli strumenti uno scacciapensieri. Non mi sorprenderebbe se il pezzo, così com'è, potesse entrare nel repertorio di Tom Waits. 
L'album nel complesso si presenta nella forma che da qualche tempo considero la migliore: un ten tracks di poco al di sopra della mezzora di musica. E' ben bilanciato tra pezzi introspettivi (il valzer di I love you as much as I can; I'm in love), tracce che devono aumentare le battute per farsi sentire nel caos dei localacci sulle interstate ( Last call for alcohol; Checkers and chess; Music city USA) e sorprendenti border line songs (American me). 
Non ci posso fare niente, sono frocio per gente della risma di Billy Joe Shaver.

lunedì 13 ottobre 2014

The Gaslight Anthem, Get hurt


A detta di chi scrive, il più grande elemento di distinzione tra i Gaslight Anthem e la pletora di bands che affollano il panorama musicale è la capacità di portarti via. Dalla tua stanza, dall' imbottigliamento nel quale sei incastrato con la tua utilitaria, dal vagone della metro che ti porta a casa. Di farti viaggiare con le suggestioni create dal loro brand musicale: una  contaminazione tra new wave e blue collar rock (qualcuno dopo Skin or swim, l'album di esordio, ha azzardato un sodalizio tra Cure e Springsteen) con derive punk. E grunge, almeno a giudicare dall'incipit di Stay vicious, pezzo di apertura di Get hurt, lavoro numero cinque del combo del New Jersey che inizia su svisate di chitarra che rimandano appunto a quella stagione di oltre vent'anni fa, con il cantato di Fallon che, quasi irriconoscibile,  ben si adegua all'andazzo, fino a che un improvviso cambio di registro scioglie la tensione passando dall'acido al confidenziale con una disinvoltura spiazzante. Basterebbe questo per cancellare il passo falso del precedente Handwritten: il gruppo si è ritrovato e ha ritrovato la voglia di comunicare attraverso le tante anime e le passioni musicali dei singoli componenti.
E' solo così che si può centrare una ballata grondante struggimento qual è la title track, splendido esempio del perfetto romanticismo da strada della band. Certo, non mancano nemmeno a sto giro le cambiali pagate a zio Bruce, con gli ululati di Stray paper e sopratutto con le sferraglianti Helter Skeleton e Ain't that a shame, ma i ragazzi sono bravi ad evitare di rimanere intrappolati dentro pericolosi risucchi derivativi e ci regalano altre importanti gemme autoctone come Red violins o la sognante Break your heart
Ho letto in giro giudizi tiepidi per questo album, si sarà capito che non li condivido affatto. Forse una band quando arriva al quindo album senza essere diventata gli U2 registra un inevitabile calo di hype da parte degli addetti ai lavori, forse Fallon e soci sono troppo poco star rispetto a colleghi anche meno dotati di loro, forse non è (più? ancora?) stagione per questo genere musicale. 
E' la classica situazione da mixed emotions: spiace per il mancato raggiungimento del successo planetario da parte dei Gaslight, ma così almeno possiamo coccolarci un gruppo che resta, ancora per un pò, solo di nostra pertinenza.

giovedì 9 ottobre 2014

Old Crow Medicine Show, Remedy


Un enorme ed eccitante parco divertimenti. Per gli amanti della musica rurale americana, della old - time, del folk e del country 'n' blugrass, questo rappresentano gli Old crow Medicine Show: la più eccitante string band attualmente sulla piazza. Remedy arriva dopo oltre quindici anni di attività (di cui però solo gli ultimi dieci a livello professionistico) e consuntiva tutte le influenze del gruppo, a partire da quella primaria: Bob Dylan. "Ho ascoltato Bob Dylan e nient'altro. Nient'altro che Bob Dylan per quattro anni. E' stato come andare a scuola." Questo il dichiarato manifesto di Critter Fuqua (banjo, chitarre, violino e voce) , che si traduce fedelmente in pezzi come Brushy mountain conjugal trailer e Sweet Amarillo. Per il resto, rimanendo nella metafora in premessa, l'album è un ottovolante di vorticose emozioni, a partire dalla trascinante cafonaggine redneck di 8 dogs 8 banjos, dove le liriche sono al banale servizio dello  scatenato pattern blugrass, così come per Tuttifrutti erano una scusa per liberare il delinquenziale rock and roll di Little Richard. In altre occasioni invece il songwriting è centrale nella costruzione della canzone e si armonizza con la melodia come un bicchiere di Southern Comfort ghiacciato bevuto in veranda, in una notte d'estate. Mi riferisco a due pezzi straordinariamente evocativi quali l'elegia funebre di Dearly departed friend e ancora di più l'irresistibile Firewater.
Per capacità di suggestionare, abilità compositiva,  tecnica e passione, non credo che al mondo, oggi, esista un'altra band come gli OCMS. Spero di avere l'opportunità di vederli dal vivo, prima o poi. Nel frattempo non posso che indicare Remedy come uno dei dischi del 2014.