lunedì 17 novembre 2014

The Gaslight Anthem, Milano 10 novembre 2014

Lunedì mi sono svegliato stanco e per niente ristorato, come del resto mi capita ogni mattina di quel giorno della settimana, e, onestamente, l'idea di uscire di casa per lavoro alle cinque e mezza e tornarci alla una per vedere il concerto dei Gaslight Anthem non mi metteva le ali ai piedi, per usare un eufemismo. Poi la giornata lavorativa è passata e mano a mano che ci si avvicinava all'ora di inizio dello spettacolo l'eccitazione del dinosauro rock ha cominciato a prevalere sulla sonnolente stanchezza strutturale che mi porto in giro da un pò. 
Quindi eccomi all'Alcatraz giusto in tempo per vedere il secondo gruppo d'apertura (il primo erano i Bayside e l'ho perso): i Deer Tick. La supporter band arriva da Providence, Rhode Island ed è attiva da sette anni e cinque album, propone un improbabile look da impiegati di banca ma compensa con un sound intrigante, sospeso tra college rock, country, rockabilly e fumi psichedelici (il pezzo conclusivo). Li accogliamo con entusiasmo e i ragazzi sembrano apprezzare. 
I Gaslight arrivano dopo una quarantina di minuti e attaccano con Stay vicious, pezzo slabbrato e acido che adoro visceralmente e che apre anche l'ultimo album Get Hurt. A seguire accendono la miccia con una versione dinamitarda di 59 sounds (nel corso del tour l'avevano proposta anche acustica) che fa letteralmente esplodere l'entusiasmo dei fan, esplicitato attraverso corposi singalong e spettacolari esibizioni di crowdsurfing (che continueranno per tutto il concerto). La scelta della band di picchiare duro ed accantonare la parte più introspettiva della propria identità appare evidente e bisogna arrivare a un terzo del concerto perchè i ritmi rallentino un pò, con l'attacco di Get hurt (altro pezzo monstre). Ma è una calma effimera, perchè i cinque riprendono subito a pestare con una Biloxi Parish dalla lunga coda strumentale che si fonde imprevedibilmente (e con mia massima goduria!) con War pigs dei Black Sabbath, proposta per le prime due strofe. 

Prima del concerto avevo addocchiato qualche setlist del tour e, vedendo che si andava dai venticinque ai trenta pezzi per serata, mi ero figurato una gig che si sarebbe protratta per almeno tre ore. In realtà, dopo che  la band ha infilato una mezza dozzina di brani nei primi quindici minuti ho realizzato che non ci sarebbe stata correlazione tra durata dello show e numero di canzoni suonate, anche per la singolare richiesta  formulata da Fallon, e approvata dal pubblico, di saltare la liturgia degli encores (i bis) e suonare tutta la setlist in un'unica soluzione, dall'inizio alla fine. 
Tornando alla cronaca del concerto, ho molto apprezzato la lunga ed avvolgente versione di Too much blood (su Handwritten) così come Selected poems e Sweet morphine, dall'ultimo (continuo a ripetere, ottimo) lavoro in studio. Il rammarico per l'orientamento punk-rock manifestato dalla band si concretizza tutto quando mi tuffo estasiato nella versione rallentata di Great expetactions, ovvero come tramutare una tirata rock  in un gioiellino vagamente fifties. Poi l'esecuzione di 45 torna a sconquassare le fondamenta dell'Alcatraz e il trittico We're getting a divorce, you keep the diner; She loves you e The backstreets chiude la serata lasciandomi con diverse luci ma anche qualche ombra, che va oltre il rammarico per la mancata esecuzione di alcuni pezzi che amo in particolare (American slang, Ain't that a shame, Film noir, Wherefore art thou, Elvis; Blue jeans and white T-shirt).

I Gaslight Anthem (nonostante una certa staticità sul palco) hanno infatti scelto rumore e monoliticità in luogo delle altre sfumature musicali che sanno sicuramente esprimere. Capisco che sia un'opzione quasi fisiologica con una formazione a tre chitarre elettriche (che non vengono cambiate mai, nemmeno durante i lenti), ma, magari anche a causa della mia età, avrei preferito si fossero aperti ad un più ampio spettro sonoro, secondo me consono alle corde del gruppo e in particolare di Brian Fallon, come ampiamente dimostrato anche nel progetto parallelo degli Horrible Crowes. Ecco, a voler trovare un difetto alla serata mi limiterei a questo elemento, comunque non sufficiente a scalfire l'affetto per la band e il sano divertimento di  vederla on stage.

lunedì 10 novembre 2014

Steel Panther, All you can eat


La musica rock, per chi scrive, è una cosa dannatamente seria. Anche se suoni un genere considerato poco nobile come il glam-metal, mi devi dire esplicitamente se ci fai o ci sei, se il tuo modello sono i Poison o gli Spinal Tap. I losangelini Steel Panther non sono ancora riusciti a convincermi su questo punto preliminare. Tutto nei loro atteggiamenti (guardate su youtube il loro tits contest del Wacken 2014), nel look e nei nomi d'arte dei singoli componenti del combo rimanda a quella stagione, nella seconda metà degli ottanta, quando le band agghindate in spandex proliferavano come lombrichi dopo un'acquazzone, ma la goliardia che li contraddistingue è spinta un pò troppo oltre, facendo nascere più di un sospetto sulla "serietà" dell'operazione.
Detto questo passiamo ad analizzare All you can eat, lavoro numero quattro del gruppo, degno successore di quel Balls out che me li ha fatti scoprire. L'opera non si discosta in maniera significativa da quello che ormai è il brand del gruppo: testi sbracatissimi nell'ambito del sesso e delle sue pratiche più border-line (vi basti come indizio Bukkake tears, titolo della traccia numero quattro) su basi musicali che rendono omaggio ai soliti grandi del passato (Ratt, Motley Crue, Poison, Cinderella, i Bon Jovi fino a Slippery when wet). L'album, dal quale sono stati estratti quattro singoli/video: Pussywhipped, Party like tomorrow is the end of the world, Gloryhole e The burden of being wonderful, scorre piacevolmente, strappando qua e là dei sorrisi rassegnati per linguaggio e "metafore" usate dal gruppo (mai una canzone d'amore si era intitolata Fucking my heart in the ass), ma non riesce a dissolvere quel maledetto dubbio iniziale. Alla fine me ne farò una ragione.

sabato 8 novembre 2014

Chronicles 42

Chi mi conosce bene lo sa. Faccio una fatica enorme a liberarmi dalle cose. Probabilmente è un difetto, anzi sicuramente lo è. Sta di fatto che nella vita ho accumulato enormi quantità di roba dalla quale, nonostante due traslochi, non sono mai riuscito a separarmi. Potete quindi capire il travaglio nel rinunciare al mio archivio di centinaia di fumetti e riviste musicali, ospitati in due case (la mia e quella dei miei) e un garage. Le motivazioni che mi hanno portato a questa scelta sono le solite: lo spazio che si restringe, lo stato di progressivo deterioramento della carta, l'imbarazzo crescente nel trovare risposte alla domanda: "che li tengo a fare?".
Per cui, dopo aver preso accordi con un negozio che ritira l'usato, nell'ultimo mese ho pazientemente diviso i fumetti della vita, collana per collana, anno per anno, editore per editore, (vi dico solo che alla fine hanno occupato per intero la superficie del garage, sfrattando l'auto), poi ho inscatolato quelli da vendere, li ho caricati in macchina, ho guidato fino a Milano e li ho scambiati per qualche banconota da cento che ha rappresentato il denaro meno appagante di sempre. 
A volte gli oggetti ti appesantiscono, ti tengono giù, ti costringono a guardare sempre al passato. Per cui disfarsene può risultare catartico, come liberarsi da una pesante zavorra. Magari anch'io, più avanti, proverò questo effetto. Per ora però avverto solo un costante senso di inquietudine, una leggera morsa alla bocca dello stomaco. Chissà come mai.

lunedì 3 novembre 2014

Nashville Outlaws, A tribute to Motley Crue


Il gruppo è formalmente ai box dal 2008, in teoria starebbe portando in giro un farewell tour con tanto di carte bollate che attesterebbero la serietà dell'impegno. Al microfono Vince Neil s'è inquartato al punto che sembra si sia mangiato un altro Vince Neil intero. Le possibilità che riescano a scrivere il minimo sindacale di dieci canzoni nuove per riempire un ultimo disco è vicina allo zero. Cosa resta per i vecchi fans di quella che, tra alti e bassi, resta probabilmente la più grande glam metal band della storia? Facile rispondere le canzoni, quelle del passato glorioso, ma anche una manciata delle più recenti. Magari rivisitate in chiave pop country, a certificare l'esiguità del delta tra i due macro generi. Nasce così un tributo la cui qualità, come tutti gli album di questa natura, è poco omogenea e più legata ai singoli episodi e a come ogni artista si pone rispetto alle composizioni originali.
In premessa va detto a scanso di equivoci che non siamo dalle parti delle cover che hanno reso famosi gli Hayseed Dixie, che buttavano in caciara blugrass i grandi del metal. Qui l'approccio è più raffinato e radio friendly, pochi violini e nessun banjo, da produzione nashvilliana moderna, perlappunto.

Tra nomi più o meno noti del country americano, sono pochi quelli che riescono nell'impresa di interpretare con personalità i classici dei Crue. I Rascal Flatts ad esempio, così come Brantley Gilbert, si presentano con un compitino svogliato, senza nessuna idea autoctona che emerga nelle loro versioni di Kickstart my heart e Girls girls girls, che, di conseguenza, si dimenticano con la stessa velocità con la quale passano nel lettore. Ci mettono qualcosa in più le singer Cassadee Pope e LeAnn Rimes rispettivamente con l'ottimo recupero di The animal in me dall'ultimo, molto apprezzato da queste parti e meno in giro, The saints of Los Angeles,  e con una Smoking in the boys room in equilibrio tra pop e jazz. Ci si comincia scaldare, dunque. Giusto in tempo per intercettare uno degli highlights della raccolta: la delicatissima e vibrante Without you, cantata con voce angelica da Sam Palladio, in pieno mood da sequenze finali di Sons of Anarchy, che ci ha abituato a strazianti cover di pezzi storici. Buone anche una suadente Looks that kill (Lauren Jenkins) e una southern Live wire (The Cadillach Three), ma è alla traccia numero dodici che si fermano gli orologi. Entrano in scena i Mavericks e mandano tutti dietro la lavagna in virtù di una Dr. Feelgood che sposta la scena dai vicoli di L.A. allo shore di Miami Beach, ed è festa grande con sensuali movimenti di bacino e suadenti ritmi caraibici. Faccio un eccezione alla mia regola di non allegare video e la posto qui sotto, in modo possiate farvi un'idea della performance di Raul Malo e soci. 

E' tutto qui: Dr. Feelgood rappresenta il colpo di reni di un tributo piacevole ma con pochi guizzi esaltanti. Ad ogni modo i fan dei Crue dovrebbero apprezzare, almeno per qualche giro sul lettore.


sabato 1 novembre 2014

MFT, ottobre 2014

MUSICA

A parte qualche eccezione, più che concentrarmi sugli album interi, sto distrattamente spiluccando qua e là. Sulla base di ciò, la lista degli ascolti è lunga, ma potrebbe esserlo ancora di più (ho omesso fugaci ascolti a Neil Young, Raskins, Ben Miller Band, Orange Goblin, Rancid, Holly Johnson). Stiamo a vedere se l'imminente uscita di Sonic highways dei Foo Fighters potrà contribuire a farmi restare più concentrato.

U2, Songs of innocence
John Mellencamp, Plain spoken
The Gaslight Anthem, Get hurt
Pierpaolo Capovilla, Obtorto collo
Black 47, Last call
Lucinda Williams, Where the spirit meets the bone
Leonard Cohen, Popular problems
Blackberry Smoke, Leave a scar: live in North Carolina
Shaman's Harvest, Smokin hearts and broken guns
Sixx: A.M., Modern vintage
The Angels, Face to face
Nashville Outlaw, A tribute to Motley Crue
Bob Seger, Ride out
Those Poor Bastards, Viciuos losers
Mariachi El Bronx, III

MONOGRAFIE/DISCOGRAFIE PARZIALI

Dropkick Murphys, Sing loud sing proud/Blackout/The warrior's code/The meanest of time
Judas Priest, British steel/Screaming for venegeance/Defenders of the faith/Turbo
Deep Purple, Fireball/Machine head/Who do you think we are/Burn

VISIONI


Sono arrivate al capitolo finale due saghe che negli ultimi anni mi hanno regalato tante soddisfazioni: Sons of Anarchy e Homeland. Ma non mi faccio mancare il recupero di Mad Men, per cui ho ormai sviluppato una discreta dipendenza, e che è arrivato alla terza stagione.