mercoledì 24 dicembre 2014

John Mellencamp, Plain spoken


A pochi mesi dalla pubblicazione del suo primo disco dal vivo (l'eccellente Live at Town Hall) arriva nei negozi (perlopiù quelli online, purtroppo) Plain spoken, il ventesimo album di John Mellencamp. E a confermare la trance agonistica degli ultimi tempi e l'ottimo stato di ispirazione del nostro, anche questa volta si tratta di un eccellente prodotto. Ostico se vogliamo, perchè a fronte di una manciata di melodie dalla presa immediata ne contiene altre che pretendono la giusta sedimentazione, ma eccellente.
In ogni caso, dopo la recente esperienza di No better than this, album frettolosamente accantonato per poi essere incondizionatamente amato, il sottoscritto non si fa più fregare e concede al vecchio Coguaro tutto il tempo che necessita per imporre stile e pezzi nuovi. Tanto lo avete capito da tempo che non è su questo blog che dovete cercare le recensioni agli album appena usciti o addirittura che ancora devono farlo.

L'inizio di Plain spoken è perfetto nel suo presentarsi rassicurante e confortevole, al pari di una casa riscaldata da un grande camino nella quale si viene invitati dopo aver trascorso una giornata al gelo. Troubled man, Sometimes there's God e The isolation of Mister ci mostrano un Mellencamp al suo apice di scrittura e, sopratutto, di interpretazione, grazie ad una voce sempre più dolente e ferita, ma più che mai evocativa. Il pattern è quello rurale degli ultimi anni, cioè l'essenzialità fatta melodia: violini e chitarre acustiche a competere con delicatezza con il cantato.
Con The company of cowards siamo invece in presenza di un reggae sui generis che viene, come il blues dell'album Trouble no more, reinventato attraverso la strumentazione della band, che lo suona come se appartenesse non ai rasta jamaicani ma alla provincia rurale americana di inizio secolo.

Le tematiche affrontate nell'album, oltre a coinvolgere gli aspetti sociali tradizionalmente cari all'artista, si inoltrano per una volta dentro i sentimenti più intimi e personali di Mellencamp. Così Tears in vain riflette le emozioni del cantante in merito alla fine, dopo vent'anni, del matrimonio con la prima moglie, accusata velatamente ma non troppo di tradimento. Le considerazioni sui pessimi tempi che viviamo deflagrano invece rumorosamente nel New Orleans blues di Lawless time, che chiude come meglio non potrebbe il lavoro.

La critica illuminata può dire quello che vuole di John Mellencamp: che è diventato autoreferenziale, retorico, paternalistico o prevedibile, ma se vi interessa la mia opinione è esattamente in questo modo che dovrebbe invecchiare uno che al genere americana o heartland ha dato così tanto. Scavando nelle radici di quella musica, portandola a nuovi ascoltatori, traghettandola nel futuro. Facendolo peraltro attraverso composizioni inedite quasi sempre coerenti col proprio ingombrante passato, a dimostrazione che quando l'ispirazione scorre fluida non servono arrangiamenti ridondati o produzioni sofisticate per far emergere le Canzoni. 
Un esempio, una scelta di vita artistica che farebbe bene, ne sono sicuro, anche a un certo Bruce Springsteen.


1 commento:

Blackswan ha detto...

Che dire ? Lui è un grande. Magari questo disco non è proprio il suo migliore, ma avercene...