lunedì 30 marzo 2015

Blackberry Smoke, Holding all the roses


Ok, è inutile continuare a prendere tempo sperando in qualche sorta di tardiva fulminazione. Holding all the roses, il nuovo e per me attesissimo album dei Blackberry Smoke si è rivelato una mezza delusione.
Come temevo l'identità fortemente sudista del gruppo è stata infatti edulcorata dalla produzione di Brendan O'Brien che ha cancellato con un colpo di spugna i picchi dello spettro sonoro della formazione di Charlie Starr, consegnandoci un prodotto smarmellato, sicuramente più radio friendly ma che impallidisce al confronto della genuinità del precedente The whipporwill.
Ed è un peccato perchè le canzoni ci sarebbero anche: Let me help you e la title track hanno tutte le carte in regola per diventare dei classici, solo che potrebbero fare parte del songbook di un mezza dozzina di band di rock mainstream, e l'esaltazione per Rock and roll again dura giusto il tempo di rendersi conto che il pattern della canzone è spudoratamente abusato.
Ad essere sacrificata in questa nuova salsa southern light è soprattutto l'anima country del gruppo, se è vero che bisogna arrivare a Too high, la traccia numero sei del disco, per farsi allietare le orecchie dall'unica canzone con sonorità delicatamente redneck.
Nell'economia generale del disco la seconda parte è sicuramente migliore della prima. Con Wish in one hand, Payback's a bitch, No way back to eden e Fire in the hole i Blackberry Smoke sembrano infatti riprendere finalmente in mano le redini artistiche del lavoro. 
 
L'ottima opinione per questa band che ha fatto del lavoro duro e dell'attività live la sua palestra di vita non cambia, però ecco, resta il fatto che la prima svolta importante della carriera il gruppo l'ha un pò cannata. Come ho già avuto modo di affermare per altre opere, Holding all the roses è il classico album di svolta che potrebbe scontentare i fan di vecchia data ma farne arrivare numerosi nuovi. 
Resta da capire quale tra le due fazioni abbia ragione.

lunedì 23 marzo 2015

Lemmy Kilmister (e Janiss Garza), La sottile linea bianca


Un pò come quando infili un cd dei Motorhead nel lettore, anche la lettura dell'autobiografia di Lemmy Kilmister ti riserva poche sorprese autentiche. 
In compenso caciara e  divertimento sono garantiti.  
La sottile linea bianca (un titolo, un programma) copre l'avventura di Lemmy nel music biz dai primi esperimenti, passando per la partecipazione al gruppo di space rock degli Hawkind, alla nascita della sua band più famosa e longeva, per un orizzonte temporale che arriva fino ai primi anni duemila. Le opinioni di Kilmister, schiette fino alla brutalità (quelle in merito al 11 settembre di certo non l'avranno aiutato a farsi amici oltreoceano) e suoi i controversi hobbies (come collezionare cimeli nazisti) trovano ovviamente ampio spazio nel volume che, uscendo dal parallelo coi dischi della band, parte piano per poi diventare  irresistibile. 
La droga, il sesso, le collaborazioni, i cambi di formazione nei Motorhead (sia nei singoli componenti che nel loro numero complessivo, passato da tre a quattro e poi definitivamente a tre), i litigi, le convivenze forzate, le cadute e le risalite, tutto è concentrato in queste trecento pagine che rappresentano un punto di riferimento nella filosofia della dissoluta vita rock and roll attraverso le gesta di un suo protagonista assoluto.
Certo, da quando La sottile linea bianca è stato dato alle stampe ad oggi, altre biografie hanno approfittato del solco tracciato, magari stupendo e scioccando maggiormente in ambito di sesso (mi viene in mente The dirt dei Motley Crue) o di dipendenze variegate (Io sono Ozzy), ma questa rimane l'opera prima e come tale unica nel suo genere, anche perchè aiuta meglio a comprendere il particolare DNA di una band, i Motorhead, unica tra le altre storiche a non aver mai raggiunto il vero successo, nonostante l'immensa popolarità del suo brand e la creazione di un sound inconfondibile forgiato nel piombo e nella sporcizia.

lunedì 16 marzo 2015

Thunder, Wonder days


Ero certo di ricordare correttamente, ma sono andato per scrupolo a controllare i miei appunti dell'epoca. La prima volta che vidi i Thunder fu il 2 dicembre del 1992 al Palasesto di S.S.Giovanni. Facevano gli opener agli Extreme. Come mia consuetudine mi ero documentato in anticipo sulle band di supporto agli headliner in modo da godermi appieno entrambe le esibizioni e ricordo che mi ritrovai ad ascoltare il loro Laughing on judgement day (che comprendeva una Low life in high places che riascoltata oggi ancora mi provoca brividi lungo la schiena) molto di più del nuovo album degli Extreme, il pretenzioso e pasticciato Three sides to every stories. Sul palco andò alla stessa maniera, con i Thunder che in quaranticinque minuti di show entusiasmarono i presenti lasciando al combo guidato da Gary Cherone e Nuno Bettencurt il difficile compito di mantenere l'erezione dei presenti.
Nonostante l'indiscutibile qualità, la band non ha mai avuto un grande seguito e io l'ho persa di vista nella seconda metà dei novanta dopo l'ottimo Live, doppio cd che testimonia la potenza di fuoco scatenata nei loro concerti.
Successivamente a quegli anni, la formazione capitanata dal frontman Danny Bowes (voce) e Luke Morley (chitarra) ha continuato a pubblicare album (cinque tra il 1999 e il 2008) concedendosi però più di una pausa, tra split, progetti paralleli e reunion.

Quante volte riferendoci ad un gruppo musicale abbiamo espresso il concetto: "non inventano niente di nuovo, ma...". Ebbene, anche in questo Wonder days (primo album dopo sette anni) i Thunder proseguono nel loro percorso musicale consolidato, muovendosi nel solco dell'hard rock inglese sporcato di blues che a partire dai settanta ha visto band come UFO, Free, Bad Company fino ai Led Zeppelin scrivere la storia del genere, ma lo fanno illuminati dalla migliore ispirazione, attraverso composizioni fresche, compatte, potenti che esaltano il cantato di Bowes e la sapienza alla sei corde del sodale Morley. 
Non c'è un riempitivo o una traccia buttata lì, negli undici titoli che compongono l'album, in compenso troviamo pezzi come The thing I want e Resurrection day che nascono già con il timbro di classiconi pronti per essere accolti in concerto dal boato della folla, una title track che cresce inesorabilmente con gli ascolti, una Black water che ad oggi è la mia preferita, i lenti al posto giusto (The rain, Broken) e patterns che raccordano questo lavoro del 2015 alle cose della ditta Page-Plant (The prophet, Chasing shadows, Serpentine ed I love the week-end, torrido rock and roll che ti aspetti inizi con la strofa "It's been a long time since I rock and rolled...").
Danny Bowes ha una timbrica matura, meravigliosamente british e la Gibson di Morley suona così come te li aspetti: semplicemente perfetta.
Wonder days è un album magicamente retrò che ti lascia un enorme rammarico rispetto alla scelta dei Thunder di circoscrivere la propria attività live a poche date e qualche partecipazione a festival che ovviamente non toccheranno il nostro belpaese.

Cosa devo dirvi? Dischi così hanno sempre il potere di scaldarmi il cuore.

lunedì 9 marzo 2015

Hellyeah, Blood for blood (2014)


Supergruppo poco celebrato, gli Hellyeah (intanto un voto in più, a prescindere, solo per la scelta del monicker) sono costituiti da Chad Gray, singer dei Mudvayne, Tom Maxwell, chitarrista dei Nothingface e Vinnie Paul, batterista dei Pantera (per intenderci, quello della vecchia band che più ha beneficiato del passaggio dal glam allo sludge risparmiando a tutti noi l'immagine del suo fisico alla Jack Black fasciato in spandex). 
Blood for blood, uscito l'anno scorso, è il quarto lavoro della formazione e si esprime attraverso una contaminazione di sotto generi che muove indiscutibilmente dal solco tracciato dai Pantera per intrecciarsi con sonorità maggiormente mainstream, proprie del nu/alt metal.
Gli elementi che più devono alla seminale band del mai troppo compianto Dimebag Darrell sono rigorosamente sparati come un pugno in faccia (ahemm) attraverso titoli come Sangre por sangre, Demons in the dirt, Soul killer, Cross to bier e  Say when, forse il più violento del lotto (quello in cui il tiro di Vinnie è lasciato deflagrare in tutta la sua brutalità),  mentre non avrebbero mai potuto far parte della cifra stilistica di Phil Anselmo lenti, seppur "nervosi", come Moth, molto radio friendly e P.O.D. style, Hush (riproposto anche come bonus in versione unplugged) e Black december.

In sintesi, se la mia recensione vi induce a pensare che Blood for blood sia un lavoro derivativo, probabilmente ci avete preso, ma, a differenza di altri album con questa caratteristica, qui siamo al cospetto dei protagonisti che questi generi hanno contribuito a forgiarli, e indubbiamente lo si avverte, sia dall'autorevolezza delle prestazioni che dalla qualità media dei pezzi.

sabato 7 marzo 2015

Chronicles 45

Di norma sono io quello che propone test d'ascolto a mio figlio. L'altro giorno però è stato lui a sorprendermi uscindosene con una richiesta specifica: "non è che hai qualcosa di Snoop Dogg o comunque di hip hop?". Eravamo in macchina, dove custodisco tutto lo scindibile dello spettro dei miei gusti musicali, dai Death alla Vanoni, e così ho potuto fare un figurone inserendo una raccolta di Notorius B.I.G. e raccontandogli la faida della west coast dei novanta e la mortale rivalità con 2pac, ottenendo da parte sua un'attenzione quasi religiosa (in altri casi devo ammettere che più passa il tempo e più le mie parole perdono un pò di autorevolezza alle sue orecchie). Arrivati a casa ha voluto altri cd (spiluccando tra i vari stili, oltre a Snoop Dogg gli ho prestato Public Enemy, Eminem, Wu Tang, Cypress Hill, Jay-Z) per mettersi in cameretta a suonarli a volume sostenuto ma non molesto. E niente, la cosa mi ha divertito.

domenica 1 marzo 2015

MFT, febbraio 2015

ASCOLTI

Poco, anzi nulla, da aggiungere all'elenco di titoli che segue. Periodo d'ascolti favoloso, illuministico.

Battle Beast, Unholy savior
Battle Beast, self titled
Aaron Watson, The underdog
Blackberry Smoke, Holding all the roses
Blind Guardian, Beyond the red mirror
Scorpions, Return to forever
Steve Earle, Terraplane
The Mavericks, Mono
Thunder, Wonder days
Hellyeah, Blood for blood
Pet Shop Boys, Pop art
Bob Dylan, Shadows in the night

MONOGRAFIA: Buckcherry

VISIONI

La lista è davvero lunga, ma molte delle serie indicate sono seguite distrattamente se/quando capita e potrebbero essere mollate in qualunque momento.

Justified, stagione due
Lilyhammer, due
Better call Saul, uno
Banshee, tre
The Walking Dead, cinque/parte due
Fortitude, uno
Le regole del delitto perfetto, uno

LETTURE

Albert Mudrian, Choosing death