lunedì 29 giugno 2015

Albert Mudrian, Choosing death: l'improbabile storia del death metal e del grindcore

Nella seconda metà degli anni ottanta la musica si trovò ad affrontare l'evoluzione (o involuzione, a seconda dei punti di vista) di un genere, il metal, i cui suoni, a detta dei soliti benpensanti, non necessitavano certo di essere ulteriormente estremizzati. E invece a molti, sopratutto ragazzini non ancora giunti all'età necessaria per guidare o bere alcolici al bar, l'heavy metal classico, ma anche gli stili maggiormente aggressivi in voga in quel periodo, come il trash o lo speed, cominciavano a stare stretti. E' così che i semi del movimento death/grindcore cominciano a germogliare e diffondersi attraverso il tape trading, fenomeno universalmente riconosciuto come essenziale da tutti gli storici musicali.
Albert Mudrian (editore e giornalista musicale) ha deciso di raccontare questa storia attraverso l'approccio orale alla narrazione. Il libro ricostruisce infatti la cronologia degli eventi che hanno portato uno stile musicale che fa dell'inascoltabilità il suo brand, alle soglie del successo mainstream attraverso le ricostruzioni dei suoi protagonisti, legate e strutturate fra loro dal certosino lavoro di Mudrian.
Se al centro della narrazione di Sound of the beast di Christie c'era il ruolo ricoperto dai Metallica, per Choosing death non vi è dubbio alcuno su chi siano i protagonisti principali della scena, il virus inarrestabile, gli untori responsabili del contagio: gli inglesi Napalm Death.
E non solo perchè il loro Scum è stato l'affilato coltello che ha squarciato barriere e convenzioni musicali esistenti, ma perchè dai vari componenti che si sono avvicendati in quella band, nasce un cazzo di albero genealogico che da solo vale, in ordine di importanza, mezzo movimento death. Infatti, sperando di non dimenticare nessuno, ex membri dei Napalm che rispondono al nome di Justin Broadrick, Bill Steer e Lee Dorrian hanno dato vita a band seminali come Godflesh, Carcass e Cathedral che hanno sviluppato ogni latitudine (death, grind, industrial, doom) del metal estremo.
Tornando ai contenuti del libro, un elemento che balza agli occhi è quello dei temi trattati dalle liriche di queste band. A differenza di ciò che molti possono pensare il death/grindcore non è un genere (o meglio, non sono generi) che abbraccia necessariamente una cultura violenta riconducibile ad una collocazione politica di estrema destra. Per un gruppo di teste bacate alla Cannibal Corpse che ha sempre puntato a scioccare attraverso testi che descrivono atti di indicibile violenza quasi sempre perpetrati ai danni del genere femminile, ne esistono molti altri (Nalpalm Death, Godflesh, Hate Eternal, Nile) che puntano invece alla giugulare del Sistema, delle iniquità sociali, alle disparità sociali utilizzando un linguaggio apertamente anarchico, oppure in modo piùo meno scientifico alla critica verso la religione cattolica o addirittura all'approfondimento storico.
Se gli artisti che si cimentano con questo genere non sono dunque tutti uguali, né dal punto di vista della proposta musicale né da quello dei temi trattati, di certo a dominatore comune c'è la fatica di suonare un genere che, di norma, viaggia a velocità disumane e viene interpretato vocalmente sollecitando la laringe fino a quasi farla schizzare fuori dalla gola. Per questa ragione non è raro che dopo qualche anno di attività saltino tendini a chitarristi e batteristi oppure si perdano per strada corde vocali dei cantanti.
Mudrian è a mio avviso molto bravo a mettere assieme gli ingredienti/testimonianze dei vari protagonisti della scena, a raccontarci di quando le major hanno provato a mettere le mani su questo genere, facendolo sfracellare al suolo, e di come questo stile sia rinato dalle sue ceneri grazie a band che hanno introdotto nuova linfa vitale a tutto il movimento, magari a costo di renderlo più accessibile alla massa.
Chiude il volume l'immancabile ma interessante lista dei migliori album death/grindcore dal 1987 al 2007 (anche se la prima pubblicazione del libro è del 2004).
Choosing death, l'improbabile storia del Death metal e del Grindcore, non è certo un libro per tutti o un tomo che si legge, come si dice, tutto d'un fiato, ma di certo non può che coinvolgere ed appassionare quanti, neofiti o esperti, non si vogliono limitare all'ascolto passivo dei vari movimenti musicali.

giovedì 25 giugno 2015

Paradise Lost, The plague within

File:Paradise Lost - The Plague Within.jpg

Sembra ieri, ma i Paradise Lost sono in giro da qualcosa in meno di trent'anni. In tutto questo tempo raramente hanno sbagliato un album, sia quando hanno "difeso la fede", incidendo cioè dischi duri e intransigenti di gothic/death metal, sia quando hanno sperimentato con l'elettronica e anche quando, pur rimanendo fedeli a se stessi, hanno raggiunto discreti risultati di vendita traguardando una buona visibilità anche al di fuori degli stretti recinti del genere.
The plague within è il quattordicesimo album della formazione inglese ed è, rarissimo caso per una band di così lungo corso che in teoria dovrebbe aver esaurito da tempo la vena creativa, uno dei lavori più ispirati e convincenti dell'intero repertorio dei cinque musicisti.
L'album si dipana come da tradizione lungo scenari desolanti e spettrali, attraverso un inconfondibile brand musicale estremamente cadenzato ed evocativo, dove i riff sono al tempo stesso marmorei e stratificati e il cantato di Nick Holmes torna ad alternarsi tra il "clean" ad un aristocratico growl.
Il disco è un tripudio di sottogeneri metal rappresentati al loro meglio. Se il gothic/melodic death del trittico iniziale No hope in sight; Terminal; An eternity of lies (il cui intro è elegantemente impreziosito dall'utilizzo di una viola) lascia affiorare dalla superfice paludosa irresistibili ricami melodici, da Beneath broken earth  in poi si precipita nel doom più rigoroso e integralista, per passare quindi alla sequenza più cupa dell'opera, rappresentata da Sacrifice the flame  e Victim of the past, strategicamente posizionata nella tracklist prima dei furiosi break death metal di Flesh from bone e del sorprendente classic heavy metal style di Cry out.
Anche se si tratta di pochi secondi, i cori gregoriani alla Blind Guardian posti all'inizio della conclusiva Return to the sea, sebbene centrino l'obiettivo di un ulteriore drammatizzazione delle atmosfere, rappresentano l'unica nota stonata rispetto alla solidissima cifra stilistica complessiva dell'album (e della canzone stessa).
Lo so, mi sono bruciato come un pivello il giudizio conclusivo sul disco nella premessa iniziale. Non mi resta che ribadire il concetto rafforzandolo: pur non essendo esattamente un esperto dei generi portati avanti dai Paradise Lost ho la presunzione di indicare The plague within, ad oggi, miglior disco metal del 2015. Di più. Servirà un capolavoro autentico da parte della concorrenza per spodestare questa formazione dal trono.

lunedì 22 giugno 2015

Joe R. Lansdale, Mucho mojo

Con la seconda avventura (Una stagione selvaggia è stata la prima) di quella che diventerà una fortunatissima saga, Joe R. Lansdale colloca la coppia di amici Hap e Leonard nell'East Texas, dove la soglia della povertà è sfondata come la porta di una casa buttata giù a calci dalla polizia, la droga è lo strumento più veloce ed economico per fuggirne, la violenza è brutale, quotidiana e ottusa e dove la vita di ciascuno non vale una cicca. Figuriamoci quella dei bambini di strada, spesso nati a loro volta da madri bambine.

Ma il valore aggiunto di Mucho mojo (1994) a mio avviso non è tanto l'indagine dei due amici (ricordiamolo: uno bianco senza fissa occupazione e vagamente progressista, l'altro nero, gay, repubblicano e amante del country). Certo, lo sviluppo della crime story si legge tutto d'un fiato, anche se i lettori sgamati non avranno grossissime difficoltà ad indovinare il colpevole degli orrendi delitti a sfondo pedofilo/religioso che turbano il sonno dei nostri, ma è l'efficacissima fotografia che Lansdale fa di quelle zone, di quei territori, di quella gente ad essere come sempre impagabile. Sembra di rivedere le sequenze di pura desolazione mostrate dalla serie tv True Detective (recentissima, che di sicuro qualcosa deve all'autore texano, oltre che a Ellroy). Così come sono da leggere con molta attenzione i dialoghi filosofici tra i due protagonisti, che approfondiscono temi immagino molto dibattuti dai media americani, come ad esempio la responsabilità individuale e dello Stato nei confronti delle persone che nascono povere e muoiono derelitte o tossiche o da criminali, oppure il rapporto sempre difficile tra la popolazione bianca e quella nera, il dibattito sul welfare state, eccetera.

Resto convinto che Lansdale dia il suo meglio nei racconti o nei romanzi autoconclusivi, dove può liberare i suoi peggiori demoni, per poi catturarli sulla pagine, in storie agghiaccianti come alcune della raccolta Maneggiare con cura che ancora mi tormentano. Una cosa però è certa, quando ricominci a leggere le opere di questo autore non vorresti più fermati. Ragion per cui ho inaugurato il mio nuovo e-reader scaricando la Trilogia del Drive-In
A presto, dunque.

lunedì 15 giugno 2015

Bob Wayne, Hits the hits

Eh sì. Sono tempi duri per l'outlaw country e i suoi interpreti più radicali. Prima Hank III posta sul suo sito la notizia che, a fronte della sua decisione di gestire la sua musica in totale autonomia, finchè non raggiungerà il break even legato alla realizzazione e alla distribuzione di Brothers of 4x4 e A fiendish threat, non potrà esporsi in nuove produzioni, poi Bob Wayne decide di dare alle stampe un album di cover di pezzi mainstream intorbidendo pesantemente la sua reputazione di anarcoide musicale.
E' questa una mossa che davvero non mi aspettavo, anche se capisco che vivere di musica oggi sia arduo un po' dappertutto, e farlo con un sottogenere per pochi intimi lo sia ancora di più.
Ed è chiaro che volendo tentare un minimo di rilancio commerciale fare la cosa più spontanea e virtuosa, cioè reincidere canzoni sconosciute ai più (magari dei Neurosis, band il cui monicker è tatuato sull'avambraccio del barbuto singer), non è un'ipotesi praticabile. Molto meglio infilarsi nel solco di un'operazione alla Hayseed Dixie e sperare di ottenere la stessa considerazione dal pubblico.
E allora ecco che sotto una copertina alla Rocky Balboa (effetto chissà quanto voluto) trovano posto tredici tracce, quasi tutte molto note, che spaziano essenzialmente dal rock al pop con incursioni nei repertori di Led Zeppelin, Red Hot Chili Peppers, Guns 'n' Roses, Rolling Stones, Beatles, ma anche Gnars Barkley, Adele, Rihanna e Imagine Dragons.
Ora, non voglio dire che il pub rock di Rock and roll non sia trascinante, così come la versione di Sweet child o' mine aggraziata o l'intuizione di Skyfall sorprendente, ma per contrappeso appaiono totalmente superflue le interpretazioni di Symphaty for the devil, Come together o I shot the sheriff.
Complessivamente si ha la sensazione che il disco si farà sicuramente qualche giro nel lettore, finendo però presto sullo scaffale per lasciare in gola l'amaro sapore del tradimento.

giovedì 4 giugno 2015

Sonisphere, Milano 2 giugno 2015


“Oggi è la festa della Repubblica: che cazzo ci fate qui?”. Già Mike. Che cazzo ci faccio qui? Mi sono posto questa domanda ripetendola tipo mantra dal primo momento in cui ho messo piede nella cosiddetta "area concerti" adiacente al forum di Assago. E ora ci si mette pure Patton, nel corso del set dei suoi Faith No More, a sfrucugliarmi. Già, perché io sarò anche troppo vecchio per manifestazioni che richiamano una folla di queste dimensioni, ma il rettangolo di asfalto lungo e stretto nel quale hanno infilato a forza oltre trentamila spettatori accorsi da tutta italia per assistere al Sonisphere, è senza dubbio il luogo più indecente che io abbia mai calcato in tre decenni di concerti. 
Alle 17:30 del pomeriggio già non si poteva arrivare nemmeno alla zona del mixer distante decine di metri dal palco. Muoversi, alla velocità di tipo cinque metri in mezzora, era un’impresa. Aggiungiamoci che, appena arrivato, qualcuno ha pensato bene di semidistruggere i miei occhiali, accidentalmente caduti a terra, e il quadro era talmente completo che la tentazione di levare le tende ha quasi preso il sopravvento. Avessi saputo di trovarmi in una gabbia abusiva di polli avrei sicuramente venduto il mio biglietto ai tanti bagarini che cercavano tagliandi all’esterno. Per recuperare quel minimo di condizione psicologica (tradotto: per farmi passare l'incazzatura) ho dovuto buttare giù un paio di birre, successivamente alle quali ho recuperato il mio sangue freddo  e mi sono guadagnato un posto per godermi i Meshuggah.

Il combo svedese vale tutta la quota parte di prezzo del biglietto:  un concentrato di brutalità con una sezione ritmica esaltata dalla doppia cassa del batterista Thomas Haake, rispetto la quale il termine devastante una volta tanto non è buttato lì a cazzo. Dall’opening Rational gaze, e per una cinquantina di minuti fino alla conclusione di Bleed non c’è davvero un attimo di respiro. E anche questa non è una frase fatta. Con gente così, ti puoi anche dimenticare il posto di merda in cui ti trovi e soprattutto la cifra che hai sborsato per trovartici.
Con molta pazienza e fatica riesco ad avvicinarmi di qualche centimetro rispetto allo stage per godermi i Faith No More, in una posizione che almeno all’inizio riserva una mattonella di ossigeno. I tecnici cominciano ad allestire il palco e subito emerge, ironica e potentissima, la personalità anarchica che caratterizza la band. Per prima cosa dalle casse che, tra un act e l'altro, diffondono musica, fino a quel momento rigorosamente metal, cominciano ad uscire le note easy listening di musical (Hair) e di autori come Burt Bacharach e Henry Mancini (Baby elephant walk, Moon river, Raindrops keeps falling on my head). Ma il vero colpo di genio è l’allestimento della scena, dove tutto viene ricondotto al colore bianco. Gli abiti dei roadies, il pianoforte, l’enorme tendaggio che fa da sfondo, persino gli ampli Marshall, sono ricoperti da teli bianchi. Oltre a questo, il bordo del palco è adornato di fiori, manco fossimo a Sanremo. Cosa si poteva inventare in rottura ad una schema da manuale rock che prevede una tetra prevalenza di nero nell’abbigliamento degli spettatori e una pesantezza nella musica proposta? Semplice. Uno scenario a metà tra il flower power e l’ecclesiastico. E così quando Patton e compari fanno capolino, nei loro immacolati completi di lino, ovviamente bianco, nessuno può dirsi stupito.


Al momento di esibirsi però, i FNM perdono ogni presunta gentilezza, sia per la precisione con la quale trafiggono l’audience, sia perché il pezzo di apertura, si, insomma... si chiama Motherfucker. Sapendo dell’ottimo rapporto di Mike Patton con la lingua italiana (ex moglie nostrana, residenza in Emilia, dischi nella nostra lingua), speravo che il frontman potesse intrattenere il pubblico con disinvoltura e confidenza. Purtroppo il singer ha deciso invece di fare perlopiù lo straniero in vacanza, si è cioè esibito nel classico florilegio di italiche parolacce (arrivando in un caso a tirare giù un bel bestemmione) senza capo ne coda. Niente di scandaloso intendiamoci: quelli vicino a me che si sono offesi per un “cantate, coglioni!”, sono gli stessi che un secondo prima rispondevano “yeahh!!!” a chi, sul palco, si rivolgeva a loro usando fuck come prefisso, solo quella di Patton mi è sembrata un’occasione persa.
Sulla sua performance invece, niente da dire: voce incredibilmente versatile, in grado di passare da Be aggressive a Evidence e da Epic a Easy e di nuovo a We care a lot con una naturalezza spaventosa. Dietro di lui, un gruppo che tecnicamente vale altrettanto. Un grande concerto.
Concluso l’act dei FNM, sono sull’orlo di un attacco di panico per l’impossibilità a muovere anche un solo muscolo nella calca che, come la Morte cantata da Vecchioni in Samarcanda, mi ha raggiunto anche lì. Decido di mollare ogni velleità di resistenza e arretro definitivamente, rassegnato a seguire gli headliner dai pochi schermi presenti.
I Metallica si fanno attendere qualche minuto in più del previsto. Annunciati dalle note di The ecstasy of gold di Morricone e dalle immagini de Il buono, il brutto e il cattivo, i four horseman si presentano on stage attorniati da qualche decina di fans che, non so come, hanno guadagnato il diritto di assistere allo show sulle assi del palco, alle spalle dei loro beniamini. L’attacco è per Fuel, seguita da For whom the bell tolls e addirittura da Metal militia. Nonostante la mia posizione non sia delle migliori (in pratica non riesco a scorgere il palco e seguo il concerto dai maxischermi), la band mi sembra in buona forma e il suono preciso e potente come deve essere. In oltre due ore di show i Tallica sciorinano una setlist a mio dire molto ben bilanciata tra classiconi (Sad but true, One, Master of puppets, Seek and destroy, Nothing else matters, Enter sandman, Creeping death) e recuperi non scontati (King nothing, The frayed ends of sanity, Disposable heroes, The unforgiven II). Non mancano i momenti di comicità involontaria, come quando Hetfield chiede ai presenti se sono veri fan, ottenendo come risposta il prevedibile boato e subito dopo spara un "e allora amate anche l'album Death magnetic!" stavolta riscontrando un assai poco convinto brusio. Prendi e porta a casa.

Allontanandomi dal Forum prima della fine del concerto,  torna ad assalirmi l'incazzatura per un festival con un bill di tutto rispetto rovinato da un'organizzazione penosa e in assoluta mancanza di rispetto verso il pubblico pagante. Qualcuno tra i presenti si è chiesto perché non si sia usato San Siro. La risposta è prontamente arrivata da altri lì vicino: "quello lo danno solo a Vasco Rossi...".

lunedì 1 giugno 2015

MFT, maggio 2015

ASCOLTI

Paul Weller, Saturn's pattern
Stev Von Till, A life unto itself
Whitesnake, The purple album
Helloween, My god-given right
Paradise Lost, The plague within
Heart, Essential
Y&T, Black tiger
Grandpa's Cough Medicine, The murder chord
Savatage, Gutter ballet
Zac Brown Band, Jekyll + Hyde
The Mavericks, Mono
Gang, Sangue e cenere
Steve Earle, Terraplane
Faith no more, Sol invictus




VISIONI

Game of thrones, 5
Wayward Pines
The killing

LETTURE

Joe Lansdale, Mucho mojo