lunedì 28 settembre 2015

Warren Haynes featuring Railroad Earth, Ashes and dust


Lo ammetto, sono tra quelli che si è stupito dell'indirizzo folk di Ashes & dust, ultimo lavoro di quell'anima irrequieta che risponde al nome di Warren Hanyes. Accantonati gli Allman Brothers Band e, per il momento i Gov't Mule, il talentuoso chitarrista non ha pensato nemmeno per un attimo di prendersi una pausa dall'attività musicale, dando invece nuovo impulso alla carriera solista. Ora, tutti sanno che Warren è un onnivoro musicale, uno che, per dire, dal vivo con i muli passa agevolmente dai Black Sabbath a Prince e che la sua ultima produzione solista aveva un'impronta soul (Man in motion, 2011), ma, per qualche strana ragione, nessuno aveva considerato che potesse avere anche un'anima profondamente rurale.
Ci pensa lo stesso Haynes a spiegare le ragioni di questa scelta, nelle note scritte di proprio pugno all'interno del booklet del cd, dove si concentra sui primi anni della sua formazione musicale, quando era adolescente e bazzicava i locali della zona di Asheville, nella natia North Carolina, dove, perlappunto, il folk (così come il blues) era di casa. E' in questo contesto che sente per la prima volta brani quali Glory road, Coal tattoo e Stranded in self-pity, che sono tra gli highligths di questo disco.
Ma il leader dei Gov't Mule, per raccordarsi degnamente con la sua primissima fulminazione musicale, ha scelto di non fare questo viaggio da solo o accompagnato da anonimi sidemen. Ha deciso invece di condividere il processo creativo di sviluppo delle sue idee, delle sue canzoni (alcune riposte per anni in un cassetto), insieme ad una formazione strutturata e dalla storia ben radicata: i Railroad Earth (quindici anni di attività e sette album all'attivo) che, non fosse per la presenza della batteria, sarebbe a tutti gli effetti una string band.

E l'importanza dei Railroads si sente eccome, non solo perchè si dividono con Haynes i titoli sulla copertina del disco, ma in virtù della profonda impronta che lasciano sul mood dell'opera. Il violino, che marchia a fuoco Is it me or you, la traccia di apertura di Ashes & dust, diventa ad esempio l'elemento distintivo di quasi tutto l'album adagiandosi su liriche che si occupano di temi sempre attuali nelle zone più depresse degli states: disoccupazione, salari da fame, esistenze ai margini della società, relazioni difficili. La già citata Coal tattoo è in questo senso esemplificativa, stesa su un tappeto sonoro che rimanda al Mellencamp di Big daddy, la canzone di Billy Edd Wheeler sembra scritta in questi tempi di interminabile crisi economica, e non quarant'anni fa. 
Se ho citato Mellencamp e sto per citare Springsteen (New year's eve ricorda molto nell'andamento Dry lighting, da The ghost of TJ) non è perchè Ashes & dust abbia un sound che debba qualcosa ad altri, ingombranti colleghi, ma perchè la fonte alla quale ha scelto di abbeverarsi Haynes è la medesima, non solo musicalmente ma anche dal punto di vista delle storie raccontate, dalla quale hanno tratto linfa i due grandi del rock americano.

E' questa la vecchia/nuova tradizione sonora dentro alla quale si infila Ashes & dust, riuscendo ad armonizzare vecchie canzoni dimenticate insieme a struggenti composizioni inedite, come la splendida Company man, o, ancora,  inaspettate cover come Gold dust woman dei Fleetwood Mac, interpretata insieme alla singer di americana Grace Potter. La propensione jam di Warren emerge verso il finale, attraverso le note Spots of time (scritta insieme a Phil Lesh dei Grateful Dead), mentre l'impronta Gov't Mule è liberata nelle conclusive  Halleluja boulevard e Word on the wind.
L'album satura quasi per intero gli ottanta minuti consentiti dal supporto digitale ma, credetemi o no, sarà per l'umore malinconico di questi ultimi mesi, non lo accorcerei nemmeno di un minuto. Così come non rinuncerei al bonus cd contenente quattro pezzi in versione demo/acustica e uno (Hallelujah boulevard) in versione live.

L'ho fatta un pò lunga. Chiudo allora limitandomi a posizionare pleonasticamente Ashes & dust tra le assolute eccellenze del 2015 e lasciando ogni commiato direttamente alle parole del suo autore.

"All the songs here represent special memories to me, and I am very excited to have finally recorded a collection, hopefully the first in a series, of these types of songs that have been a big part of my musical spirit for my whole life."
W.H.




lunedì 21 settembre 2015

Motley Crue with Neil Strauss, The dirt



Non è certo per affinità con lo stile di vita dei componenti dei Motley Crue che dal 1983, anno di uscita di Shout at the devil, ascolto questa band. Il motivo, molto più banalmente, è che mi è sempre piaciuto il glam - metal che i quattro proponevano. Chiaramente l'eco delle gesta di Vince Neil, Nikki Sixx o Tommy Lee mi arrivavano anche in periodi molto antecedenti l'avvento delle comunità globali, ma prima di leggere The dirt non avrei mai pensato a quale livello di granitica ignoranza e di infide bassezze potessero arrivare i quattro, sia nei rapporti reciproci che in quelli con le persone che gravitano attorno alla band.
Non dico che la biografia non mi sia piaciuta, in fin dei conti è una lettura scorrevole e quando si parla di un soggetto che, tra picchi e valli di ascolto, ti accompagna da trent'anni, lo sfrucugliamento è assicurato. Però, ecco, diciamo che se non avessi mai ascoltato i Crue, aver appreso così tanto delle loro personalità non mi avrebbe incentivato ad acquistare un loro album o andare ad un loro concerto (cosa invece che farò il prossimo novembre).
 
Non tanto per la dissoluta decadenza degli anni ottanta, nei quali alcol e droghe sono stati l'unico interesse dei quattro; non per la delusione di scoprire che i primi quattro album del gruppo (Too fast for love, Shout at the devil, Theatre of pain, Girls girls girls), da me all'epoca molto apprezzati, siano stati incisi in uno stato di quasi totale incoscienza facendo ampio di ricorso a scarti, outtakes e frattaglie accumulati nel tempo; neanche per l'indifferenza ostile che ogni componente della band ha nutrito per anni nei confronti degli altri, al punto che un crue vivo, morto o in galera non faceva alcuna differenza per il resto della formazione, ma probabilmente l'elemento che più mi ha indignato è stato l'esagerata misoginia applicata nella pratica giornaliera alle groupies o alle donne in generale che gravitavano introno al circo dei Motley. Mi si dirà che si tratta di relazioni tra adulti consenzienti, ma le tante umiliazioni alle quali sono state sottoposte le diverse fanciulle in cerca di quindici minuti di gloria insieme alle rockstar di turno mi hanno provocato rigetto e disgusto.
 
Non è tutto qui The dirt, ma è chiaro che il settanta per cento (stima per difetto) di acquirenti del libro sono interessati a sbirciare da dietro il buco della serratura le evoluzioni sessuali di Vince, i dettagli della relazione tra Tommy e Pamela (non mancano, tranquilli) o per avere contezza di quanto accadeva nei camerini prima (durante) e dopo i concerti, piuttosto che per documentarsi sui processi creativi dei dischi nel periodo coperto dalla bio (dalla nascita dei singoli componenti all'uscita di New Tattoo, nel 2000).
Se è questo che cercate, tra le pagine di The dirt troverete pane per i vostri denti.
 
Io preferisco tornare ad ascoltare Dr. Feelgood cercando di concentrarmi su ciò che dovrebbe contare di più in un gruppo di artisti: la musica.

giovedì 17 settembre 2015

80 minuti di Amos Lee

"O merda...oggesù...". Fa sorridere se ci ripenso, ma ancora oggi, a dieci anni giusti di distanza, quando viene il momento di parlare di Amos Lee, mi scatta spontaneamente l'aggancio mnemonico con il titolo del thread a lui dedicato, lanciato sul nostro forum di dinosauri dall'amico Maurino, che comunicava efficacemente lo stupore derivante dal primo ascolto del debuttante artista di Philadelphia e del suo sound sospeso tra folk e soul. Ancora oggi quel debutto resta probabilmente il lavoro migliore di Lee, che però, anche nelle produzioni successive, ha comunque sempre garantito anima ed onestà, anche grazie ad una voce empatica come poche nel panorama moderno ed un approccio alle composizioni rispetto al quale il paragone con Ben Harper è ormai decisamente superato. Cinque album in dieci anni più un recente live con la Colorado Symphony Orchestra mi ha fornito materiale a sufficienza per questa playlist, che spero torni utile a ripercorrere la carriera di Amos o, perdonate la presunzione, ad aiutare qualcuno a scoprire "uno dei nostri".

1. Keep it loose, keep it tight
2. Seen it all before
3. Arms of a woman
4. Bottom of the barrel
5. Black river
6. Supply and demand
7. Sweet pea
8. Night train
9. Won't let me go
10. Truth
11. Street corner preacher
12. El camino
13. Windows are rolled down
14. Flower
15. Jesus
16. Cup of sorrow
17. Trickster, hucksters and scamps
18. Chill in the air
19. The man who wants you
20. Violin (live with the Colorado Symphony)
21. Colors (live with the Colorado Symphony)

lunedì 14 settembre 2015

Southside Johnny & The Asbury Jukes, Soultime!


Musicalmente parlando, quello della nostalgia per il passato è sicuramente uno dei temi ricorrenti del blog. E se parliamo di passato, pochi artisti appaiono demodè al pari di Southside Johnny, l'archetipo dell'outsider, dell'underdog che rimane tale, del loser che il successo l'ha sempre e solo sfiorato con la punta delle dita senza mai riuscire ad afferrarlo.
Benché il suo periodo migliore sia racchiuso negli anni dal 1976 (l'irrinunciabile I don't wanna go home) al 1981 (l'essenziale Live: Reach up and touch the sky) e alla collaborazione con Springsteen  e Little Steven, John Lyon (vero nome del musicista) è riuscito anche successivamente a scaldare i cuori dei suoi seguaci con lavori che avrebbero meritato ben altra fortuna, come ad esempio lo straripante Better days del 1991. Sempre fuori dalla luce dei riflettori, con o senza i sodali Asbury Jukes, Southside è stato costante nelle sue uscite a ritmo di una ogni due-tre anni, senza considerare i numerosi live. Per questo il lustro trascorso da Pills and ammo mi è sembrato un'eternità.
 
Soultime! giustifica però pienamente l'attesa, visto che ci consegna un artista tirato a lucido e undici episodi di una bellezza abbacinante, bagnati nell'oro liquido  dei tempi migliori. Il titolo dice tutto (ma anche no): se la partenza è infatti da cardiopalma con tre pezzi che riprendono la migliore tradizione soul della ditta di casa e una Don't waste my time che in un mondo giusto scalerebbe le classifiche dei singoli, la prosecuzione della tracklist riesce nell'impresa di non abbassare di un millimetro l'asticella della qualità complessiva, spostando orizzontalmente il mood verso un elegantissimo errebì bianco alla Style Council (Looking for a good time) e un brano che pesca a piene mani dalla blaxpotation e da un tipo come Bobby Womack (Walking on a thin line), passando per la toccante love song "adulta" Words fails me. Insomma una festa. E come ogni festa vintage che si rispetti, alla fine arrivano i lenti. E che lenti. Dal mosso con brio I'm not that loney alla ballad con bolla papale The heart always know, Johnny tira fuori il crooner che ha dentro, non lasciando scampo al nostro cuore di burro.
 
Un disco travolgente e inaspettato che celebra i sessantacinque anni di un'artista testardamente attaccato alla voglia di creare musica, nonostante il resto del mondo tenti ostinatamente di marginalizzarlo. Nella short list dei migliori dell'anno.
 

giovedì 10 settembre 2015

Low Winter Sun


Le premesse per assistere ad una grande crime story sfumata di noir c'erano tutte. Poliziotti corrotti, violenza, vite border line, lo sfondo di una città - Detroit - che si prestava come meglio non si potrebbe allo scenario raccontato.
Purtroppo qualcosa, arrivo a sostenere molto, non ha funzionato e Low Winter Sun (adattamento USA dell'omonima serie inglese) non è mai riuscita a farmi superare la sospensione dell'incredulità.
Sarà stato per i characters stereotipati, il plot traballante, la recitazione ingessata e mai empatica di Mark Strong o quella sempre sopra le righe del pur bravo Lennie James, ma la serie non ha convinto. E non mi riferisco solo ai miei gusti, visto che è stata cancellata dopo una stagione.
Un peccato, perché alcuni spunti interessanti LWS li ha anche offerti, ma il più grande errore di un prodotto che vuole essere "scomodo" è quello di apparire del tutto convenzionale nel confezionamento.
E sfortunatamente non sempre buon cast e storie torbide sono sufficienti a porre rimedio.

lunedì 7 settembre 2015

Level 42, Live at The Apollo, London (2003)


Torno a scrivere dei Level 42, una di quelle band di gioventù che ciclicamente si ripropongono nei miei ascolti. A non annoiare mai è la formula musicale del tutto peculiare della formazione di Mark King, che miscela abilmente generi apparentemente distanti tra loro come jazz, pop, disco,fusion e funk. Nel tempo, l'inconfondibile basso "slappato" del leader Mark King e le tastiere, accompagnate dall'immancabile controcanto in falsetto, di Mark Lindup hanno creato un brand che ancora oggi resta un riconoscibilissimo marchio di fabbrica.
Nel corso degli anni i Level 42 hanno sempre dato grande spazio all'attività concertistica, immancabilmente fotografata su diversi live, a partire dall'imperdibile A physical presence del 1985, registrato un attimo primo del successo planetario che sarebbe arrivato grazie a World machine e Running in the family.
Live at The Apollo, London (2003), arriva, al contrario, in un momento storico in cui la band è tornata sostanzialmente nell'anonimato e, dopo qualche anno di sospensione, si è riformata per l'attività dal vivo.
Ma non c'è spazio per la malinconia, non sono dimessi i toni che escono da questo doppio CD che ci consegna un gruppo che non ha perso l'abitudine di accompagnare le sue hits con il repertorio meno commerciale e, soprattutto, a dilatare i pezzi oltre i consueti minutaggi da pop song.
Così, con l'esclusione della pessima Heaven in my hands posta in apertura, c'è di che celebrare la perizia tecnica e il mood creato dai cinque, grazie anche al recupero di pezzi come Love meeting love,  proveniente addirittura dalle prime incisioni del gruppo (The early tapes, appunto), che ci concede un delizioso bridge di stampo jazzistico. Suppergiù dello stesso periodo (proveniente dall'esordio ufficiale, self titled del 1981) la funky disco di Starchild in odore di Earth Wind and Fire, cantata per intero,e non potrebbe essere altrimenti, da Lindup.
Ma non si può parlare di festa senza i singoli che imposto la band e quindi, prima della canonica conclusione di Hot water, sfilano in ordine sparso Something about you, Lessons in love, Running in the family, Leaving me now e To be with you again a testimoniare che qualcuno, dagli anni ottanta, è riuscito ad uscirne vivo.

giovedì 3 settembre 2015

Orchid, Sign of the witch (EP)


Io lo chiamo effetto Audio 2. Sapete no, quel duo italiano che ha costruito le proprie fortune su una formula che copiava pedissequamente lo stile vocale e musicale di Battisti?
Certo, in quel caso si trattava di una trovata che aveva anche nell'eccezionalità dell'idea il suo punto forte, mentre per quanto concerne i Black Sabbath servirebbero le pagine gialle per citare tutte le band che li hanno presi a riferimento, soprattutto relativamente all'era Ozzy Osbourne. 
Gli Orchid (from San Francisco, attivi dal 2007), ora che gli Sword hanno deviato in maniera decisa dal sound sabbatiano, sono probabilmente gli epigoni più credibili di quel pattern che, a detta di molti, nel 1969 ha dato orgine all'heavy metal.
Questo Sing of the witch è un EP di quattro tracce che succede agli album Capricorn del 2011 e The mouths of madness del 2013 e già dalla cover mette in chiaro le intenzioni del combo, richiamando in maniera sfacciata la copertina del primo Greatest Hits del gruppo di Birmingham.
E' chiaro che un primo giudizio su operazioni di questa natura non può che essere critico, ma andando oltre l'aspetto più superficiale delle analisi, bisogna ammettere che non è esattamente semplice elaborare canzoni che suonino autentiche come gemme nascoste della premiata ditta Iommi/Butler/Osbourne al pari di  Helicopters, la open track, e Strange Winds, il brano conclusivo del disco. Entrambi i pezzi sono assolutamente convincenti nello spostare le lancette indietro nel tempo, ricreando un'atmosfera in bilico tra suggestioni oniriche e scenari inquietanti. 
Insomma, al netto di tutto, avercene di band derivative come gli Orchid.