venerdì 30 dicembre 2016

Metallica, Hardwired...to Self-Destruct


I Metallica sono uno degli ultimi gruppi al mondo in grado di scatenare tempeste di opinioni contrastanti ogni qual volta si riaffacciano al mercato discografico. 
Sarà perchè ormai le loro uscite sono estremamente cadenzate (otto anni trascorsi dal precedente Death magnetic, se non si conta Lulu, con Lou Reed, del 2011) o a causa del loro ruolo seminale nella rifondazione del metal negli anni ottanta, ma è bastata l'anticipazione del primo singolo di questo nuovo album (la title track) a far scoppiare il pandemonio in rete, con una predominanza di commenti negativi in merito: alla pochezza del brano, alle rullate stantie di Ulrich, all'abuso di wah wah di Hammeth, alla voce di Hetfield, etc. etc.. Sembra quasi che il pubblico metal veda i Metallica come i ragazzi vedevano i Led Zeppelin nella seconda metà dei settanta: vecchie scoregge superate dai tempi. Stupisce tanto accanimento per questi dinosauri rock, a fronte del fatto che per altri gruppi storici, come ad esempio AC/DC , Iron Maiden o Motorhead, nonostante l'oggettiva ripetitività delle proposte, ci sia molta più accondiscendenza e rispetto.
Per Bottle of Smoke, ad oltre un mese dalla sua uscita, Hardwired...to Self-Destruct è un buon album, se contestualizzato a questa band e a questo tempo, probabilmente il migliore dopo il black album, ad un'incollatura da Load (che tentava un approccio diverso) e Death Magnetic.

E' un tributo, non è dato sapere quanto consapevole, all'heavy metal tutto, gli episodi propriamente thrash sono infatti limitati, mentre quelli più legati allo stile classico di questo genere emergono nettamente. Dei due CD che compongono il lavoro (qui la critica ci sta, visto che il timing complessivo avrebbe permesso di utilizzare tranquillamente  un solo supporto, con relativo prezzo di vendita inferiore) i trentasette minuti del primo filano via che è una goduria, trainati dalla title-track, da una Atlas, rise! davvero ispirata, da una Moth to the flame che è già un instant classic e da un pezzo, Halo on fire, che da mediocre si trasforma in emozionante a due terzi della sua durata. Sul secondo disco si arranca un pò di più, abusando forse un pò troppo dei mid-tempo, ma almeno mezza tracklist resta su buoni livelli (Confusion, ManUNkind e Here comes revenge), in compenso la traccia conclusiva, Spit out the bone è brutale e devastante in maniera totalmente insperata e inaspettata.
Non dico niente di particolarmente originale, se affermo che con una paio di brani in meno l'opera sarebbe stata più coesa, anche se devo ammettere che questa critica valeva forse di più nei primi giorni di ascolto, ora che Hardiwerd...to self-destruct è sedimentato, i quasi ottanta minuti di durata pesano molto meno.
Dietro all'uscita dell'album, un abnorme lavoro di marketing, con video realizzati per ogni singola canzone e rilasciati progressivamente, e con i singoli componenti dei 'Tallica in giro per tutto il globo a promuovere il disco, a ulteriore testimonianza di come, superato a fatica il passo falso dell'affaire Napster, questa band sappia ora maneggiare i media come pochi altri.

Altro che self-destruct, questi sono ancora perfettamente programmati per una minacciosa auto-conservazione.

giovedì 29 dicembre 2016

MFT, novembre e dicembre 2016

In attesa di definire la lista dei migliori album dell'anno, operazione per la quale bisognerà attendere ancora qualche settimana, chiudo il 2016 recuperando in un'unica lista le mie dritte relative ai mesi di novembre e dicembre.

ASCOLTI

Matt Woods, How to survive
Metallica, Hardwired to self destruct
Wayne Hancock, Slingin' rhythm
Sixx: A.M., Prayers for the blessed
Alejandro Escovedo, Burn something beautiful
Cody Jinks, I'm not the devil
ABC, The lexicon of love II
Airbourne, Breakin outta hell
Rolling Stones, Blue and lonesome
Garth Brooks, Gunslinger
The Mavericks, All live long, volume 1
Brujeria, Pocho Aztlan
Dee Snider, We are the ones

Compilazioni estemporanee, ovvero: raschiando il fondo del barile della nostalgia

Queen
Billy Idol
Duran Duran
The Cure

Wayne Hancock


VISIONI

Terminate rispettivamente la terza stagione di Power, The night ofWestworld e la seconda di Daredevil, sono su The affair (terza), The Young Pope, Treme (terza) e Quarry.

LETTURE

Con mio grande apprezzamento, più di una persona mi ha regalato libri, per Natale. Conto pertanto di uscire dal mio ciclico stallo grazie a Born to run, l'autobiografia di Bruce, e alla Trilogia di Holt, di Kent Haruf
Stay tuned!

lunedì 26 dicembre 2016

ABC, Lexicon of love II



Il pop elegante degli ABC non ricorre abitualmente nei miei ascolti, anche se rappresenta bene un periodo spensierato della mia vita, nel quale, oltre ai dischi baricentrati essenzialmente sulle varie sfumature del rock, si ascoltava anche molta radio che mandava generi musicali più diversificati.
Oggi della band che ci ha regalato grandi singoli come Poison arrow, (How to be a) Millionaire, Be near me, S.O.S. e When Smokey sings è rimasto il solo Martin Frey, stilosissimo vocalist storico, che si gioca una carta alla quale normalmente sono allergico: quella di titolare un disco nuovo come parte due del proprio lavoro di maggior successo. Così, se The lexicon of love nel 1982 aveva acceso un faro su una nuova band rientrante nella new wave inglese, forzare un link quasi trentacinque anni dopo, oltre ad apparire come la carta della disperazione, poteva finire per contaminare anche l'innocente ricordo dei fasti passati.
Fortunatamente non è andata così, perchè The lexicon of love II si muove in punta di piedi ma con efficacia su di un brand stilistico all'epoca riconoscibilissimo, rilanciandolo con classe. Già a partire dall'opener The flames of desire e dal successivo Viva love, il primo singolo estratto, per buona parte della tracklist (fatto salvo qualche inevitabile filler), ci si muove infatti sulle stesse coordinate che ci avevano fatto scoprire e apprezzare gli ABC, conducendo così in porto un operazione solo apparentemente semplice,

Un modo elegante per restare aggrappati alla gloria del passato.


lunedì 19 dicembre 2016

Airbourne, Breakin' outta hell


Con una buona percentuale del rock moderno che si misura su elementi fortemente derivativi, quello che fa la differenza tra una band e l'altra è la qualità delle canzoni. Nessun rimprovero pertanto agli australiani Airbourne se hanno scelto di suonare come i conterranei AC/DC, piuttosto qualche critica se dopo due album convincenti come Runnin' wild e No guts no glory, con Black dog barkin' la loro formula ha cominciato a mostrare la corda.
Opportuno dunque qualche anno di assestamento prima di tornare in sala di registrazione per i lavori che hanno prodotto questo Breakin' outta hell, che ci regala una band in risalita e che già dalla copertina svela la passionaccia per l'hard rock e l'heavy metal degli anni ottanta.
L'ispirazione per la band di Angus Young continua a dominare lo stile dei fratelli Joel e Ryan O'Keeffe (rispettivamente chitarra solista/voce e batteria degli Airbourne), come testimonia la title track che apre il lavoro, ma già con la successiva Rivalry, sebbene si resti nella classica coerenza stilistica del combo, si affacciano sonorità immediatamente riconducibili alla prima metà degli ottanta, che tanto hanno dato all'heavy.
Il manifesto It's never too loud for me è un'altra frustata che promette di diventare un discreto anthem dal vivo, in ottima compagnia con le altre tracce del mazzo che non abbassano mai la tensione. In sostanza, se cercate una ballata strappamutande, guardate altrove perchè questi ragazzi non conoscono nemmeno il significato del termine.

Defenders of the faith.




lunedì 12 dicembre 2016

Garth Brooks, Gunslinger


Con Gunslinger Garth Brooks si scrolla di dosso la ruggine di tanti anni di inattività e i rancori verso il music business che avevano caratterizzato il buono ma un po' farraginoso  comeback del 2014, .
Qui invece, già a partire dalla copertina, che riprende lo stile fotografico dei grandi successi dell'artista di Tulsa, siamo in piena Garth Brooks's comfort zone.
E infatti Honky-Tonk somewhere, la traccia che apre il lavoro,  è finalmente un sontuoso honky tonk, materia nella quale il nostro ha sempre avuto pochissimi rivali, creato scientemente per infuocare i grill bar preferiti da tutti i redneck americani.
Ogni cosa è al suo posto, in questo lavoro: il timing che varia dai trentacinque ai quarantadue minuti a seconda delle versioni del disco, il numero delle tracce (dieci/dodici), il bilanciamento tra le diverse anime country dei pezzi, che viaggiano tra sentimento (Ask me how I know; Whiskey to wine - l'immancabile duetto con la moglie Trisha Yearwood - ), honky tonk (Baby let's lay down and dance, oltre alla già citata opener), ma anche prove muscolari (BANG! BANG!) e una riuscita incursione nello stile classico di John Mellencamp (Sugar cane).
Nella versione deluxe, inoltre, il rifacimento di uno dei pezzi più noti di Brooks, Friends in low places, verniciato di nuovo grazie al lussuoso contributo di George Strait, Keith Urban ed altre star country.
 
La quasi contemporanea uscita del doveroso (in ambito country) album natalizio, il quarto in carriera, in duetto con la gentile consorte, certificano che Garth Brooks ha ripreso il giusto ritmo discografico.
La cosa ci fa un enorme piacere.

martedì 6 dicembre 2016

The Mavericks, All live long - Volume 1



Anche se si tratta di un disco dal vivo, questo All night live - volume 1 è un'altra dimostrazione che il ritorno dei Mavericks (al terzo album in quattro anni) è cosa seria e che la band, superata la boa dei venticinque anni, vuole dare assidua continuità alla propria carriera.
La particolarità di questo live, il terzo nella discografia del gruppo, è quella di fotografare la produzione più recente di Raul Malo e soci, prendendo in considerazione in pratica solo composizioni dagli ultimi In time e Mono.
Non trovano spazio pertanto, ne l'ottimo country degli esordi e nemmeno l'unica hit del combo, quella Dance the night away contenuta nel capolavoro Trampoline del 1998.
Ormai la dimensione della band è quella old fashioned delle grandi orchestre anni cinquanta, con una sezione fiati a sostenere le strutture melodiche sempre splendidamente in bilico tra le due americhe: lo swing e il rock and roll da una parte, i ritmi latini: la salsa, la rumba, la cumbia dall'altra, con risultati che regalano immancabilmente fascino e nostalgia.
Le sedici tracce che compongono l'album restano fedeli alle versioni originali, con qualche eccezione, come il crescendo finale dei fiati su As long as there's loving tonight o la versione interminabile di Come unto me che farebbe venire voglia di scendere in pista anche ad un tocco di legno (quindi a me).
Unico difetto di un live che fotografa perfettamente lo straordinario stato di forma della band, la qualità audio non impeccabile che pialla un po' i suoni, non facendo emergere a dovere l'inimitabile voce di Malo.
Peccato veniale, quello che conta è la musica e qui dentro c'è il meglio immaginabile in questo ambito artistico.

 

lunedì 28 novembre 2016

Brujeria, Pocho Aztlan


Chiunque abbia amato quei pazzoidi scatenati dei Brujeria, quest'anno ha avuto un regalo totalmente inaspettato con il ritorno della mitologica band anglo-messicana, assente dal mercato discografico da ben sedici anni.
Più che un gruppo, il combo è sempre stato un vero e proprio ensamble che, attorno alla presenza costante del leader, il cantante di origine messicane, ma cittadino U.S.A., John Lepe (aka Juan Brujo), ha visto avvicendarsi tanti musicisti membri dei più importanti gruppi di musica dura degli ultimi anni. Jeffrey Walker (aka El Cynico) dei Carcass, presente anche in questo ultimo album, è il più fedele di essi, ma ci sono stati anche Billy Gould (Faith No More) e Jello Biafra (Dead Kennedys), oltre a componenti di Arch Enemy, Fear Factory, Cradle of Filth e numerosi altri.
Lo stile dei Brujeria è noto. Un grind/death/groove originale e riconoscibilissimo, sul quale sono adagiate liriche impregnate della violenza che bagna le strade di Juárez e delle periferie messicane in mano ai narcos, ma che toccano anche temi sociali, politici e di emigrazione, con soventi incursioni nella politica americana (in passato se la sono presa con Pito Wilson, governatore repubblicano della California, per la sua Proposition 187, e di recente non potevano ignorare le posizioni anti messicane di Trump, al quale hanno dedicato una composizione che purtroppo è rimasta fuori dall'album).
Più che dalle parti del genere musicale narco corrido (band messicane agiografiche rispetto alla delinquenza dei narco trafficanti, spesso a loro asservite) i Brujeria riprendono la tradizione di divertimento macabro caratteristica del Messico, non si prendono sul serio e di certo non hanno niente a che vedere con i terribili cartelli della droga locali.
Pocho Atzlan è la nuova sintesi del Brujeria-pensiero, che parte con uno dei loro caratteristici "skit" (il termine è di norma usato per gli intermezzi rap/hip-hop, ma non me ne viene in mente uno più calzante) parlati, con un dialogo che stavolta è recitato in una lingua sconosciuta (sovviene l'atzeco) che accompagna alla title track. Petto in fuori e tanto outspken per No aceptan imitaciones, sull'indiscussa unicità della band. Per Plata o plomo, traccia che riprende l'ormai tristemente noto motto dei narcotrafficanti, rilanciato di recente dalla serie tv Narcos, viene utilizzato come prologo uno stralcio di telegiornale che riporta uno dei frequenti fatti di violenza di quelle terre. C'è spazio anche per Mèxico Campeòn, divertente tributo alla nazionale di calcio messicana, che riprende il caratteristico coro dei supporter locali "Mèxico! Mèxico! Ra-ra-ra!", per concludere con una cover parafrasata di California uber alles dei Dead Kennedys, che qui diventa California uber Aztlan (laddove Aztlan è un luogo immaginario, sorta di terra promessa per tutti i messicani).
Dopo tutto questo tempo i rischi di uno scivolone c'erano tutti, e invece Pocho Aztlan si rivela un ritorno coi cazzi che non scalfisce di un graffio la reputaciòn di questo incredibile gruppo.


lunedì 21 novembre 2016

Dee Snider, We are the ones

Dee snider we are the ones

Dee Snider. Gente, io amo quest'uomo (lo so, è un incipit che comincio ad abusare). 
La mia passione per i Twisted Sister risale all'adolescenza e in particolare ad una cassetta da novanta minuti sulla quale l'amico metallaro di seconda superiore mi registrò, su un lato Shout at the devil dei Motley Crue e sull'altro Stay hungry proprio de La Sorella Svitata. Con tutti i limiti artistici del caso, i Twisted Sister ebbero un ruolo di primo piano nella diffusione della musica dura tra la fine dei settanta e i primi ottanta, la loro miscela coniugava travestitismo alla New York Dolls, riff pesanti in odore di Black Sabbath e pezzi vigliaccamente orecchiabili, chiaramente glam. Ora, se vi dicessi che ogni cosa che hanno inciso fosse oro, mentirei spudoratamente. Ma diciamo che la triade Under the blade (1982); You can't stop rock 'n' roll (1983) e Stay hungry (1984) merita tutto il rispetto dovuto a chi ha inventato una forma di comunicazione rock, attraverso un ispirato taglia e cuci di chi li ha preceduti.
Dee tra l'altro, a livello personale, è riuscito a travalicare la notorietà della sua band grazie all'esposizione garantita da MTV e dal mitologico programma Headbangers ball, il format maggiormente responsabile della diffusione dell'heavy metal nell'intero globo, di cui il capellone frontman era conduttore.

Proprio qualche giorno fa (il 12 novembre, in Messico) i Twisted Sister, con l'ultimo concerto della loro esistenza, hanno chiuso la lunga storia della band (lasciandomi l'enorme rimpianto di non averli mai visti dal vivo) e Snider, a sessantuno anni, si è concentrato sulla propria carriera solistica,battezzata ufficialmente da We are the ones.
Il cantante del Queens aveva messo le mani avanti: "questo sarà un disco che si discosta totalmente dal mio sound abituale". Nessuno spiazzamento dunque se i nuovi pezzi non suonano come Destroyer o Burn in hell, piuttosto qualche imbarazzo nell'ascoltare pesantissime influenze (plagi?) di band attualmente affermate.
Partiamo dai Foo Fighters, enorme fonte di ispirazione su pezzi come Over again o Crazy for nothing, per passare al sound pulito, perfettino e trendy delle tante band nu nu metal assemblate per i passaggi sui moderni canali musicali (Close to you, Rule the world, Believe), oltre alla cover di Head like a hole,  da Pretty hate machine, dei Nine Inch Nails.
Tutto da buttare quindi? Non solo per l'affetto e la riconoscenza che nutro nei confronti di questo personaggio, devo dire di no. Intanto perchè l'album scorre bene, è prodotto in maniera impeccabile, dura il giusto e si fa riascoltare, e poi in ragione del fatto che qualche picco d'ispirazione si trova. E guarda caso risponde a quei titoli che maggiormente richiamano la vecchia e gloriosa tradizione dei TS, come la title track, piazzata in apertura, e So what, a chiudere il lavoro. Giusto nel mezzo invece, una versione solo voce e piano dell'anthem We're not gonna take it che vorresti con la parte razionale del cervello bollare come irrimediabilmente kitsch, ma che invece ti trovi ad apprezzare.

A new life for an old rocker.

giovedì 17 novembre 2016

80 minuti di Tom Waits

Ognuno ha il proprio mazzo di canzoni preferite di Tom Waits. C'è chi preferisce il periodo più cantautorale (1973/1980) e chi quello rumorista (dal 1983). Personalmente, se dovessi scegliere un solo album per ciascuna delle due fasi della corposa discografia dell'artista californiano, voterei per Foreign affairs (1977) e Rain dogs (1985). Scelta completamente soggettiva, visto che questo artista, più di altri, incide in maniera del tutto differente sulle preferenze dei suoi fan.
Tuttavia, come dicevo, ognuno ha il suo mazzo di canzoni preferite di Tom Waits.
Con qualche sanguinosa rinuncia, quelle che seguono sono le mie.


01. New coat of paint
02. The piano has benn drinkin'
03. A sight for sore eyes
04. Singapore
05. In the neighborhood
06. Jersey girl
07. I hope that I don't fall in love with you
08. San Diego Serenade
09. Burma shave
10. Diamonds on my windshield
11. Ol' 55
12. Martha
13. I never talk to strangers
14. Clap hands
15. Tom Traubert's blues
16. Underground
17. The heart of saturday night
18. Downtown train
19. Innocent when you dream
20. Picture in a frame



lunedì 14 novembre 2016

Six Feet Under, Graveyard Classics 1-4 (2000-2016)


Il mio primo approccio con il death metal è stato del tutto grottesco e surreale. Ricordo qualcosa più di vent'anni fa, con gli amici, uno dei tanti sabato sera spesi in provincia, una festa della birra dalle parti di Crema, dove un gruppo di ragazzotti suonava appunto death. Il repertorio era perlopiù di cover, e ricordo l'effetto straniante che faceva il growling del singer nel vuoto del sotto palco e nel disinteresse generale tipico di queste situazioni. Verso la fine la band attacca una versione death della sigla del cartone animato giapponese Jeeg  (Jeeg vah! Cuore e acciaio...) che strappa più di un sorriso ma almeno raggiunge l'obiettivo di far alzare la testa dal panino con la porchetta ai distratti presenti.
Ecco, i primi ascolti della saga Graveyard Classics dei Six Feet Under (niente a che vedere, ovviamente, con l'omonima serie tv) mi hanno fatto tornare in mente quella sera. La band, attiva dal 1995 ed oggi ormai di esclusiva proprietà del singer Chris Barnes, unico superstite della formazione originaria, da una quindicina d'anni alterna la zuppa (commercialmente parlando) di album composti da materiale inedito al pan bagnato di cover di classici hard rock & heavy metal, che probabilmente gli permettono di pagare qualche rata della macchina.
Il primo tributo è del 2000 ed è una celebrazione dei riferimenti musicali d'infanzia della band. Il growling di Barnes è di quelli perfettamente ascoltabili (a differenza di chi predilige uno stile tipo gorgoglio del caffè quando sale nella moka) e le canzoni originali sono chiaramente riconoscibili. Per cui, superato lo spiazzamento iniziale nell'ascoltare un pezzo giocherellone come T.N.T. degli AC/DC interpretato con le accordature basse, le atmosfere low-fi e il caratteristico vocione di Barnes, ci si comincia a divertire. Di conseguenza le successive (vado in modalità random) Sweet leaf (Black Sabbath), Smoke on the water (Deep Purple), Blackout (Scorpions) e finanche Purple haze (Jimi Hendrix) filano via piacevolissimamente.
Visto il buon interesse suscitato, nel 2004 esce il volume due e stavolta i SFU cambiano il tiro, proponendo cover non di una manciata di canzoni di artisti vari, ma di un album per intero. Non un album a caso, ma la pietra miliare Back in black degli AC/DC, riproposto nella sua interezza, canzone per canzone, nella tracklist originale. Ormai l'orecchio dell'ascoltatore si è assuefatto allo stravolgimento dei pezzi (nella forma, non nella sostanza) in salsa death e il disco, nel suo piccolo, riceve anche buoni riscontri.
Nel 2010, durante lo iato discografico più lungo del gruppo (quattro anni) esce Graveyard Classics 3, che riprende la formula dell'esordio, dieci pezzi per dieci differenti band. Ad essere omaggiati questa volta, sono, tra gli altri, Mercyful Faith, Twisted Sister, Prong, Anvil, Metallica e Van Halen. L'interpretazione vocale di Chris diventa più cupa, orientandosi allo stile più estremo di cui alla moka sopra citata.
L'ultimo episodio è storia recente. A giugno esce infatti il quarto capitolo dei classici da cimitero e stavolta il "privilegio" del tributo, come si intuisce dal sottotitolo (The number of the priest) se lo spartiscono quasi equamente Iron Maiden e Judas Priest, i primi con sei canzoni e i secondi con cinque. Le scelte questa volta, pur cadendo su brani importanti delle band inglesi, evitano quelli di maggior successo. Non troviamo quindi materiale tipo Run to the hills o Living after midnight ma roba più da die hard fans come Nightcrawler o Genocide per i Priest o Prowler e Stranger in the strange land per i Maiden.

Per chi fosse incuriosito dall'approfondimento di questo particolare sotto genere metal ma non avesse voglia di misurarsi con opere a volte inaccessibili (ai neofiti), la serie Graveyard Classics può rappresentare un'ottima iniziazione.

giovedì 10 novembre 2016

Doctor Strange

 
Ecco, non si può dire che sia mai stato un grande fan de il Dottor Strange (detto all'italiana), al contrario le sue storie mi hanno sempre piuttosto annoiato, non essendo occultismo e magia campi da gioco nei quali mi piaceva cimentarmi.
Certo, le sue prime storie a fumetti, anche grazie alle matite, prima del suo creatore Steve Dikto poi di Bill Everett fino a Gene Colan, esplodevano le pagine degli albi in una tavolozza di colori e immagini lisergiche, psichedeliche che probabilmente ben si sposavano con la sotto cultura degli anni 60/70.
Ma la passione, quella che mi faceva stazionare davanti all'edicola in attesa dell'uscita dei nuovi numeri de L'Uomo Ragno o Capitan America, quella non si è mai accesa.
Storia diversa per la trasposizione cinematografica del personaggio. I Marvel Studios stanno cominciando a terminare i characters nuovi da lanciare al grande pubblico, e allora ben venga il turno del mago dei maghi, che in fin dei conti è pur sempre uno degli eroi dotato di maggior potere in tutto l'universo fumettistico.
Senza stare ad entrare nel merito della storia, mi limito a sintetizzare che non siamo sui livelli delle migliori produzioni supereroistiche degli ultimi anni (I Guardiani della Galassia su tutte, e anche Deadpool), ma che se il film si lascia vedere è soprattutto merito delle convincenti prove attoriali del britannico Benedict Cumberbatch (Dr. Strange), di un Mads Mikkelsen ormai abbonatissimo ai ruoli da villains (oltre a Hannibal Lecter pensate anche all'ultimo, innovativo, spot della Ford) e Tilda Swinton. Di rilievo anche gli effetti speciali, che al posto delle canoniche sequenze di distruzione propongono una sorta di accartocciamento della realtà, attraverso un movimento "a meccanismo d' orologio" di strade e palazzi.
Già previsto il sequel, così come il link con gli Avengers.
 
Per il ragazzino dentro di noi che non vuole saperne di andarsene.

lunedì 7 novembre 2016

Motorhead, Bad magic (2015)

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"(...) non ho paura di morire, ne tantomeno mi preoccupo del dopo, ma di certo ho compreso meglio due cose: che ho dei limiti ma che non mi voglio nemmeno arrendere. Insomma, ho capito che anch'io morirò, ma non voglio certo passare gli ultimi anni in un ricovero. (...) Per concludere, 'Till the end' sostanzialmente dice che farò questa vita per sempre."

Queste le parole di una delle ultime interviste rilasciate da Lemmy Kilmister durante la promozione di Bad Magic, nell'estate dell'anno scorso. Pronunciate da chiunque altro, queste frasi sarebbero apparse ai più come l'ennesima smargiassata dell'attempata rockstar di turno, che gonfia il petto davanti ai taccuini per poi riprendere la propria dieta salutista a base di centrifughe sedano e carote. Nessuno ha invece osato contraddire la coerenza di mister Kilmister, che negli ultimi mesi, nonostante condizioni di salute terrificanti, ha continuato a calcare i palchi di mezzo mondo (certo, con risultati spesso disastrosi) riuscendo anche a comporre il proprio testamento artistico: Bad Magic, l'ultimo album dei Motorhead.
La band ha spesso giocato, nei suoi testi, con la vita e la morte, l'orgoglio e la forza, il clangore della resistenza ai compromessi contrapposto  alla musica da ascensore di un'esistenza incanalata su binari ordinari.
Non sfugge alla regola nemmeno Bad magic, le cui prime note riservate all'ascoltatore sono quelle della voce catrame e schegge di vetro di Lemmy che, prima ancora che entrino chitarra di Phil Campbell e batteria di Mikkey Dee, esclama  Victory or die!. Ironia della sorte, stavolta a prevalere sarà l'opzione due della dicotomia del titolo.
La considerazione della critica riguardo i Motorhead ricalca quella riservata a tante altre band gloriose, frettolosamente accantonate negli anni novanta e assunte a ruolo di mito nella seconda metà degli anni zero. C'era fretta e superficialità nelle stroncature preventive degli album di due decadi fa, così come oggi avverto eccessiva accondiscendenza nell'incensare a prescindere lavori buoni, ma non certo fenomenali se opportunamente contestualizzati.
Bad magic rientra appieno in questa categoria, potendo giocarsi ottimi jolly, come Thunder and lightning, The devil (Brian May alla chitarra); Fire storm hotel; When the sky comes looking for you e, a guardare tutti dall'alto, l'introspezione di quella Till the end citata in premessa al post, che assume chiaramente un'intensità ancora più straziante con la dipartita di Lemmy.

Insomma, la santificazione di Lemmy è inarrestabile, ma chi come noi segue la band dalla notte dei tempi sa bene come reagirebbe il buon Kilmster davanti a questo tardivo clamore.
Esatto. Manderebbe tutti affanculo.

giovedì 3 novembre 2016

MFT, ottobre 2016

ASCOLTI

Dee Snider, We are the ones
Beth Hart, Fire on the floor
Periphery, III: Select difficulty
Matt Woods, How to survive
Meshuggah, The violent sleep of reason
Brujera, Pocho Aztlan
Airbourne, Breakin' outta hell
Sturgill Simpson, A sailor's guide to earth
New York Dolls, self titled
RAW, From the first glass to the grave
Zucchero, Rispetto
Zucchero & the Randy Jackson Band
Lady Gaga, Joanne
Steve Earle, The hard way
Cody Jinks, I'm not the devil
Bon Jovi, This house is not for sale
Testament, Brotherhood of the snake
The Mavericks, All night live - Vol I

VISIONI

The Walking Dead, 7
Westworld
Shameless, 1
Treme, 2
The Affair, 2
Power, 3

LETTURE

George Saunders, Pastoralia
Richard Matherson, I migliori racconti



lunedì 31 ottobre 2016

Sturgill Simpson, A sailor's guide to earth


In meno di quattro anni e tre album Sturgill Simpson ha compiuto una traiettoria artistica che, soprattutto per gli artisti nati in ambito country, altri non hanno compiuto nemmeno in trent'anni di carriera. E l'aspetto più stimolante è che si percepisce netta la sensazione che questa voglia di esplorare la musica a tutto tondo non sia ancora sopita.
Recensendo l'esordio discografico High top mountain, nel chiosare prevedendo l'approdo a lidi artistici che travalicassero la musica per bifolchi (detto con l'affetto di chi adora il country) non vestivo i panni improbabili del veggente, semplicemente mi sembrava palese la capacità potenziale di Simpson di travalicare i generi. 
Il tempo mi ha dato ragione, e oggi, dopo le derive acido-psichedeliche dell'ultimo Metamoderns sound in country music, A sailor's guide to earth (tra titolo dell'album e copertina si fa a gara per l'intuizione più suggestiva) compie un ulteriore passo in avanti verso l'affermazione della poliedricità del nativo del Kentucky.
Questo lavoro si attesta infatti su canoni di una libertà espressiva che rimanda direttamente ai periodi sperimentali del folk anni settanta, con in più un quid di soul e improvvisazioni d'ispirazione jazz che vanno a comporre una affresco bizzarro e fricchettone, ma senza dubbio unico e affascinante.
Il mood del disco non solo cambia da traccia a traccia, ma anche nell'ambito della singola composizione possiamo imbatterci in repentini stravolgimenti della struttura-canzone, come succede nell'opener Welcome to earth (Pollywog), che parte ballata pianistica, ma a metà timing si trasforma in un classico soul old school. Dopo un interludio introspettivo degno del miglior Ben Harper (Breaker's roar), con Keep it between the lines si passa addirittura a canoni funk: basso slappato, sezione fiati e uno sborosissimo solo di sax che chiude il pezzo sfociando direttamente nel successivo Sea stories (dove si riaffaccia il canone country).
Ma è inutile girarci attorno, l'intuizione che fa saltare sulla sedia non risiede nel novero delle composizioni originali, bensì nell'unica cover presente nel lotto. Con la reinterpretazione di In bloom dei Nirvana (vale la pena ascoltarla) infatti, Sturgill regala una lectio magistralis su come si realizzi una cover: stravolgendola ma conservandone appieno il senso.
Call to arms chiude il lavoro indossando con cazzimma un ulteriore nuovo abito, quello di un torrido southern tutto slide guitar e honky tonk piano, che, per non rassicurare troppo l'ascoltatore, alla fine tracima nell'errebì.
L'ultima dimostrazione di come questo artista fugga da qualunque recinto o classificazione, seguendo esclusivamente il suo istinto e la sua camaleontica sensibilità musicale.
 
A countryman guide to modern music.

giovedì 27 ottobre 2016

Ant-Man


Di tutti gli eroi minori della Marvel, è sicuramente Ant-Man quello che maggiormente esaltava la nostra acerba immaginazione, quando, a sette-otto anni, approcciavamo per la prima volta l'incredibile universo supereroistico.
Il potere di rimpicciolirsi fino a pochi millimetri, di interagire con i diversi tipi di  formiche (arrivando a comandarle) e, soprattutto, la capacità di entrare e uscire da qualunque posto, praticamente invisibili, è un parco giochi potenzialmente infinito per un bambino che subiva la meraviglia di quegli albi coloratissimi e fantastici.
Pur restando sempre una figura di secondo piano, Hank Pym dei fumetti (l'Ant-Man per eccellenza, co-fondatore dei Vendicatori nella continuity originale) ha subito molteplici sviluppi nella sua storia, acquisendo i poteri di ingigantirsi (Golia), modificando il suo alter-ego in Calabrone (una story line molto lunga) oltre che, purtroppo, finendo anche incriminato per stupro dell'ex moglie Janet (la super-eroina Wasp), nella fase in cui gli sceneggiatori della Casa delle Idee cominciavano a fare il salto in avanti in quanto a realismo delle storie.
L'Ant-Man portato sul grande schermo ha ovviamente una genesi diversa. C'è un attempato Hank Pym (Michael Douglas), Ant-Man originale, che passa il testimone del costume con il potere di rimpicciolire di chi lo indossa all'abile ladro gentiluomo Scott Lang (Paul Rudd) per impedire che lo scienziato malvagio Darren Cross (Corey Stoll, per me eternamente Peter Russo di House of Cards), ex protègè dello stesso Pym, distribuisca su larga scala per scopi militari, a buoni e cattivi, la nano-tecnologia.
Lo sviluppo della storia non regala nulla di particolarmente sorprendente, risultando in effetti prevedibile in ogni suo passaggio. 
Ma il ritmo è molto buono, i dialoghi divertenti e le sequenze d'azione efficaci proprio come le vorresti. Il film è andato benone al box office ed è atteso un sequel. 
Nel cast anche Evangeline Lilly (che sarà la nuova WASP); Bobby Cannavale (per me eternamente il Richie Finestra di Vinyl) e Michael Pena.
Avanti così.

lunedì 24 ottobre 2016

Scour, Scour


Gli Scour sono l'ultimissimo progetto di Phil Anselmo, uno che di progetti musicali, nel corso degli anni, ne ha cambiati più delle mutande.  Il periodo post-Pantera del frontman, in assoluto uno dei singer più amati in ambito metal, è stato infatti affollatissimo di idee sviluppate con musicisti non solo del suo ambito ma anche southern e country: Down, Superjoint Ritual (di cui è stato annunciato un nuovo album purtroppo senza il contributo di Hank III), Arson Anthem (altro progetto con Hank III), Christ Invertion, Necrophagia, senza contare l'esordio a proprio nome del 2013 e i side projects ai tempi dei Pantera. La partecipazione di Phil a queste bands non necessariamente si manifestava attraverso il contributo del suo strumento più noto, cioè la voce, ma anche come side man alla chitarra (è il caso degli Arson Anthem e dei Necrophagia). 
Negli Scour invece è la sua inconfondibile ugula che rantola nei sei (cinque, in realtà, per la presenza di Tactis, uno strumentale che fa da intermezzo) fulminei brani che si riferiscono al black metal per pattern chitarristici e atmosfere, ma senza il tipico carico di bassa fedeltà a suggellarne mood e impatto. 
La durata di neanche quindici minuti complessivi del disco rende sostenibile l'ascolto anche ai meno devoti al genere estremo, a patto di apprezzare questi connubi tra brutalità e velocità d'esecuzione. 
A sugellare la denominazione d'origine controllata del lavoro, coadiuvano il nativo di New Orleans componenti delle formazioni death metal Cattle Decapitation e Anomisity e grindcore dei Pig Destroyer, 
Non è dato sapere se il supergruppo avrà un futuro, per il momento pertanto ci accontentiamo di questo prescindibile ma convincente cumshot.

venerdì 21 ottobre 2016

80 + 80 minuti di AC/DC

Può sembrare inconcepibile a chi non conosca un po' gli AC/DC, ma l'immarcescibile band australiana non ha mai ceduto alle facili lusinghe di un greatest hits.
Ci è andata vicina nel 2010 con la colonna sonora di Iron Man 2, che racchiude una quindicina di classici, ma un vero e proprio "best of" in pompa magna la ciurma di Angus Young non l'ha mai rilasciato.
Suona meno anomalo se si pensa che in realtà gli AC/DC hanno sempre avuto una grande coerenza, oltre che artistica - croce e delizia della critica musicale - , anche strategica, se è vero che sono stati tra gli ultimi a cedere i diritti di vendita alle piattaforme digitali, dei singoli brani, slegati dall'opera compiuta rappresentata dall'interezza  degli album.
Io invece, che davanti alla sfide di una bella compilation non guardo in faccia a nessuno, ho messo in fila quasi quaranta brani, diligentemente divisi tra il periodo Bon Scott (1974/1980) e quello Brian Johnson (dal 1980), da High voltage del 1975 a Rock or bust del 2015: quarant'anni di solido ed indistruttibile hard rock di matrice blues, dall'inconfondibile graffio boogie.


Bon Scott era

1. Dirty deeds done dirt dirt cheap
2. Highway to hell
3. Rock and roll damnation
4. The jack
5. Girls got rhythm
6. Love at first feel
7. Dog eat dog
8. It’s a long way to the top (if you wanna rock and roll)
9. Touch too much
10. T.N.T.
11. Let there be rock
12. Shot down in flames
13. Sin City
14. Hell ain’t a bad place to be
15. Ride on
16. High voltage
17. Whole lotta Rosie
18. Jailbreak



Brian Johnson era

1. Thunderstruck
2. Shoot to thrill
3. Fire your guns
4. Let's get it up
5. Sink the pink
6. Heatseeker
7. Satellite blues
8. Rock and roll train
9. Back in black
10. Moneytalks
11. That's the way I wanna rock and roll
12. Are you ready
13. You shook me all night long
14. Flick of the switch
15. Stiff upper lift
16. Hard as a rock
17. Rock or bust
18. Hells bells
19. For those about to rock




lunedì 17 ottobre 2016

Gojira, Magma


I Gojira, band francese proveniente dalla regione meridionale dell'Aquitania, lavora duro da anni per imporsi all'attenzione di una platea, quella del metal non necessariamente estremo ma di certo anticonvenzionale, che normalmente presta più attenzione ad altre latitudini geografiche. 
Il gruppo, grazie ad un cammino costante e sempre più autorevole dal 2001 a oggi, attraverso l'intensa attività live e il rilascio di sei album e una manciata di EP's ha compiuto un percorso di crescita con pochi eguali nell'ambito del genere musicale di riferimento, che l'ha portato anche a misurarsi con iniziative irrituali come musicare dal vivo il film muto Maciste all'inferno (1925), e uno split EP dal vivo con gli ottimi Kvelertak.
Normalmente inquadrati nel filone death/thrash, nonostante da questo genere il combo si differenzi per molti aspetti, i Gojira con Magma prendono ulteriormente (definitivamente?) le distanze da quello stile, senza a mio avviso perdere un grammo di identità, ma rallentando un pò i pezzi (al netto di The cell e Stranded, in piena continuità con la velocità e l'aggressività dei dischi precedenti) e facendoli marinare in un mood solenne, cadenzato, ipnotico, dove il cantato del singer Joe Duplantier si fa così pulito da apparire quasi ecclesiastico. 
L'album, composto da dieci tracce di cui due strumentali (Yellow stone e la conclusiva Liberation, sulle tracce dei Sepultura etnici di Roots), è estremamente affascinate e suggestivo, pezzi come The shooting star, Magma o un Silveira dal tema arabeggiante, faranno probabilmente scappare a gambe levate i fanatici del death, ma spero davvero possano far avvicinare al groupe numerosi nuovi fan, in virtù non solo delle atmosfere al tempo stesso tese e rarefatte sprigionate, ma anche del drumming stratosferico del batterista Mario Duplantier (fratello del cantante).

Fin qui, probabilmente il mio disco metal dell'anno.

giovedì 13 ottobre 2016

The affair, season 1


Nonostante la puntuale segnalazione del mio blogger di riferimento, questa serie del 2014 mi era totalmente sfuggita. Per fortuna la sua recente programmazione su di una piattaforma satellitare mi ha dato modo di recuperarla. Per fortuna, perché The affair è una produzione che, nonostante il plot principale sia costruito attorno ad una storia d'amore - non certo la mia tazza da tè in quanto a soggetto - ,  mi ha coinvolto davvero oltre ogni aspettativa.
La vicenda ruota attorno a Noah (Dominic West, l'indimenticabile McNulty di The Wire) che dietro alla patina di marito fedele e perfetto padre di quattro figli, nasconde una profonda insoddisfazione, ampliata dallo stallo della sua carriera di scrittore e da come questo gli venga fatto pesare dal suocero Bruce Butler (John Doman, anche lui in The Wire, abbonato a ruoli ad alto tasso di stronzaggine), autore invece affermato che sforna un bestseller dietro l'altro, e che dall'alto della sua posizione agiata, paga le scuole private ai figli di Noah.
Una vacanza presso il resort della famiglia Butler a Montauk, Long Island, farà da innesco ad una serie di attriti familiari e alla fatale scintilla con Alison (Ruth Wilson) una giovane donna locale che nasconde una terribile tragedia nel suo passato.
Ogni episodio è suddiviso in due parti, narrate sulla soggettiva dei due protagonisti principali (Noah e Alison) che, interrogati nel tempo presente da un detective che indaga sulla morte di un personaggio la cui identità verrà svelata strada facendo, ripercorrono in flashback le tappe della loro relazione.
Il coinvolgimento emotivo dello spettatore maschile deve ovviamente molto all'identificazione con Noah, alle prese con una complessa midlife crise e ai mille dilemmi morali connessi alla scelta dilaniante che deve compiere.
La storia si sarebbe potuta tranquillamente reggere su questo, sulla relazione clandestina tra i due protagonisti con gli effetti sulle rispettive famiglie, facendo a meno dell'overdose di sequenze di sesso e rinunciando al sub plot dell'indagine di polizia, anche se mi rendo conto che senza di esso si sarebbe persa la potenza del cliffhanger conclusivo oltre a rendere sterile la prosecuzione con la seconda stagione (2015) e la terza (ai nastri di partenza).

Fin qui giudizio ampiamente positivo.

lunedì 10 ottobre 2016

Shawn Colvin and Steve Earle, Colvin and Earle


Era destino che Steve Earle e Shawn Colvin prima o poi dovessero incrociare le loro strade. Non solo per l'assonanza dei certificati di nascita (1955 lui, 1956 lei), la passione per la root music, in particolare il folk, la compartecipazione alla serie TV Treme o per il fatto che in passato abbiano suonato assieme, ma perchè tra i due esiste un genuino rispetto reciproco e un'affinità elettiva che trova sfogo nel portare in giro, a dispetto di ogni moda, la musica che amano.
Lei, oltre ad essere un'autorevole country singer è anche un interprete sopraffina che riesce a personalizzare in maniera convincente i brani altrui (da ascoltare in questo senso Uncovered, dell'anno scorso). Lui, soprattutto nell'ultima decade, si è trasformato in un busker di lusso, che si fa carico delle tradizioni rurali del Paese, incurante di giudizi e riflettori (la sua partecipazione a Treme con la scritta sulla chitarra "This machine floats", che richiama sia l'uragano Katrina che la scritta "This machine kills fascists" sulla chitarra di Woody Guthrie, è quasi commovente), lasciando che a parlare sia unicamente la sua musica.
Eccoli qui dunque, finalmente sullo stesso disco (prodotto dal nome tutelare Buddy Miller), ad intrecciare le rispettive voci, che salgono leggere come spirali di fumo, si alternano ossequiose, creando impeccabili armonie vocali su dieci tracce (più tre nella versione deluxe), suddivise tra inediti in co-writing, cover altrui e (nelle bonus tracks) pezzi autoctoni di repertorio, riarrangiati.

Convincenti e suggestivi i brani inediti: Come what may, Tell Moses, The way that we do, Happy and free, You're right (I'm wrong) e You're still gone  nascono già con le stimmate di traditional. 
Molto buone anche le cover di Tobacco road (John D. Loudermilk) , You were on my mind (Sylvia Fricker, è la versione originale di Io ho in mente te degli Equipe 84) e Raise the dead (Emmylou Harris) , mentre la riproposizione scolastica di Ruby Tuesday è probabilmente l'unica nota stonata dell'intero lavoro.
Un disco solido e incantevole allo stesso tempo, l'agognato incontro di due anime gemelle che il quotidiano inglese The Guardian ha definito, con affetto e ironia tutti british,: Shawn Covin and Steve Earle: "nine divorces, two addictions, one perfect mix".

giovedì 6 ottobre 2016

80 minuti di Bruce Springsteen 2007/2014

L'operazione in sé è ampiamente collaudata. Prendere un determinato periodo storico non particolarmente gravido d'ispirazione nella carriera di un'artista ed estrapolarne le cose migliori. Springsteen, con i suoi lavori più recenti (Magic; Working on a dream; Wrecking ball; High hopes) si presta magnificamente all'iniziativa, in considerazione delle copiose critiche piovutegli sul capo per quanto prodotto dal 2007 al 2014.
Critiche, almeno quelle costruttive, perlopiù giustificate. Lo Springsteen patologicamente puntiglioso che conoscevamo, con le canzoni usate per comporre quattro album ne avrebbe rilasciati due al massimo. 
Non mi è stato quindi particolarmente difficile estrapolare una ventina di pezzi dalle cinquanta tracce contenute nei dischi presi ad oggetto, certo, qualche rinuncia dolorosa c'è stata (Outlaw Pete su tutti, un pezzo straordinario escluso solo per una questione di minutaggio), ma in fin dei conti meno del previsto.
Il risultato, ve lo garantisco, è esaltante. Su questa tracklist c'ho passato settimane senza che mi stancasse, proprio come se fosse un lavoro compiuto.
Alcuni brani, in particolare quelli più introspettivi, come Magic, The wrestler, Jack of all trades o il country folk di Tomorrow never knows stanno lì a dimostrare che il sopraffino songwriter che si cela dietro il mostruoso rocker è ben lungi dall'essersene andato.


01. High hopes (cover dei The Havalinas)
02. Radio nowhere
03. Death to my hometown
04. Magic
05. Working on a dream
06. Livin' in the future
07. Frankie fell in love
08. The wrestler
09. Wrecking ball
10. Harry's place
11. Jack of all trades
12. Tomorrow never knows
13. Just like fire would
14. I'll work for your love
15. Girls in their summer clothes
16. Dream baby dream (cover dei Suicide)
17. Long walk home
18. We take care of our own
19. Land of hope and dreams

lunedì 3 ottobre 2016

Steven Tyler, We're all somebody from somewhere


Dopo oltre quarant'anni di attività con gli Aerosmith, durante la quale ha attraversato tutte le fasi del rock system: la gavetta, il successo, gli eccessi, le tossicodipendenze, l'oblio e la risalita, Steven Tyler arriva, alla veneranda età dei sessantotto, ad incidere il suo primo album solista.
Molto si è letto in giro delle elaborate lavorazioni necessarie a far arrivare We're all somebody from somewhere nei negozi di dischi (qualunque cosa questa definizione significhi, ormai). L'elemento più frequente che emergeva dalle anticipazioni dei media era che si sarebbe trattato di un disco country.
E va bene, il nucleo centrale dei pezzi di We're all somebody from somewhere è sicuramente riconducibile all'imperante pop country nashvilliano di questi ultimi tempi, i patterns di brani come Love is your name, Somebody new, I make my own Sunshine, Somebody new e Red White and you sono da questo punto di vista inconfondibili, però...però c'è dell'altro.
Intanto delle prime quattro tracce deputate ad aprire il lavoro, tre vanno stilisticamente fuori tema,  con un pezzo piuttosto oscuro dalle liriche spietatamente autobiografiche come My own worst enemy, lo sporco blues Hold on, l'ariosità della title track e la ballata in stile Aerosmith It ain't easy.
Solo successivamente subentra il pattern principale del lavoro (che l'ha portato fino alla vetta alle classifiche di genere country) , ma anche lì, con l'eccezione di una Love is your name, totalmente spersonalizzante la timbrica di Tyler, il resto raggiunge un buon equilibrio tra l'orientamento stilistico delle composizioni e l'ingombrante passato  del singer.
Del tutto superflue, al contrario, le rielaborazioni/filler di Janey's got a gun degli stessi Aerosmith e Piece of my heart, portata al successo da Janis Joplin.
 
Non è un brutto disco, We're all somebody from somewhere, si ascolta volentieri ed è un buon compagno di viaggio nei tragitti in auto. Risente probabilmente della lunga gestazione, del tentativo di farne un blockbuster e del convergere al suo interno di canzoni che provengono da diversi momenti della vita del loro autore, con relativo spiazzamento dovuto agli sbalzi umorali percepiti.

giovedì 29 settembre 2016

Monty's Favorite Tips, settembre 2016


ASCOLTI



Gojira, Magma
Shawn Colvin & Steve Earle, Colvin & Earle
Cody Jinks, I'm not the devil
Sturgill Simpson, A sailor's guide to earth
Willy Deville, Collected
Airbourne, Breakin' outta hell
Neurosis, Fires with fires
Parker Millsap, The very last day
Palace of the King, Valles marineris
Black Sabbath, Past lives
Nick Cave and the Bad Seeds, Skeleton tree
Twisted Sister, Metal meltdown - Live
The Orchid, The zodiac sessions
Dogs D'Amour, In the dynamite jet saloon
Sam Cooke, A prortait of a legend
Jimi Hendrix, Are you experienced?
New York Dolls, self titled

VISIONI



Mr Robot, stagione 1
The Affair, stagione 1
Power, stagione 3


LETTURE



Michele Serra, Gli sdraiati

lunedì 26 settembre 2016

The Dead Daisies, Make some noise


Se ci fosse una giustizia in questo fasullo mondo del rock business, allora uno come John Corabi, classe 1959, avrebbe meritato almeno una volta nella vita di raggiungere quel tipo di successo che garantisce non solo la celebrità ma anche, perché no, un po' di soldi in banca.
E invece l'ottimo singer, che ha avuto la sfiga di essere chiamato nei Motley Crue nel momento più atroce per la storia del gruppo, continua ad arrabattarsi tra un progetto e l'altro, nella speranza di intercettare prima o dopo quello giusto.
Noi tutti gli auguriamo che quello giusto possa essere i The Dead Daisies, vero e proprio collettivo sulle scene dal 2012, i cui componenti sono in continua rotazione e il membro fondatore, il chitarrista australiano David Lowy, ha la particolarità di essere, prima che un musicista,  un milionario, CEO di un fondo di investimento e un pilota di aerei.
La formazione attuale, oltre a Corabi (che si unito alla banda già l'anno scorso con il precedente album Revoluciòn) e Lowy, vede al basso Marco Mendoza (ex Thin Lizzy), alla chitarra solista Doug Aldrich (Whitesnake, Dio, House of Lords) e Brian Tichy alla batteria (Ozzy, Whitesnake, Foreigner). Insomma, la classica all star band che prova ad ottimizzare l'esperienza dei suoi componenti sfruttando ovviamente il ventre sempre gravido della retromania.
Nel caso di specie Make some noise , a differenza del precedente Revoluciòn, molto orientato a suoni hard rock/blues anni settanta, baricentra il proprio stile attraverso una combinazione di sleaze e arena-rock potente ed energetica, che non fa niente per nascondere le principali fonti d'ispirazione (Hanoi Rocks, Aerosmith, Faster Pussycat) senza tuttavia disdegnare richiami a  Van Halen (Mainline), Def Leppard (Make some noise) o interpretazioni di cover che rivitalizzano grandi classici (Fortunate son, dei Creedence Clearwater Revival). Stranamente, visto il genere proposto e l'arma non convenzionale rappresentata dalla voce pastosa di Corabi, manca all'appello la classica ballatona glam.
Un lavoro tanto divertente nel breve quanto (presumiamo) effimero.
Temo che Corabi dovrà rimandare al prossimo giro il suo vitalizio pensionistico.

giovedì 22 settembre 2016

Lilyhammer, stagione 3

Spiace dirlo, ma nella terza stagione di Lilyhammer il livello scende molto rispetto alle precedenti. La causa principale è probabilmente da attribuire ad un plot un po' fiacco, compensato dagli autori con un eccessivo ingorgo di storylines secondarie e sottotrame francamente poco convincenti. Ma soprattutto si perde per strada il giusto equilibrio tra commedia e dramma fin qui raggiunto, con diversi scivoloni verso la tragedia che fanno perdere quella sensazione di prendersi poco sul serio, elemento fondamentale quando si tocca il tema mafia in produzioni leggere.
La stagione si salva, oltre che per un sempre godibile Steven Van Zandt, grazie ad alcune ospitate illustri. La prima è quella dello scoppiettante Gary U.S. Bonds nei panni di sé stesso, che interpreta This little girl al Flamingo (il locale di Frank). La seconda, molto più fragorosa, è nientepopodimeno che quella di Bruce Springsteen, in veste di fratello di Frank Tagliano (Little Steven) ma soprattutto nel ruolo di un mitologico killer mafioso che conduce una parallela attività come...becchino.
Bruce non è un fenomeno d'attore, ma sua la parte, per quanto breve, è perfetta: abito elegante, coolness, occhiali scuri anche di notte, poche battute che esaltano l'inconfondibile timbro di voce.
La serie dovrebbe essere conclusa anche se ultimamente si stanno rincorrendo voci di una nuova stagione con un protagonista diverso da Little Steven, che si è chiamato fuori.

lunedì 19 settembre 2016

Death Angel, The evil divide


Dominatore incontrastato delle mie recenti sessioni di footing, The evil divide è l'ottavo album dei Death Angel, band di thrash metal che ha debuttato con il seminale The Ultra-Violence nel 1987, quando molti dei suoi componenti non erano nemmeno maggiorenni.
Il gruppo si è successivamente diviso nel 1991 per poi riformarsi nei primi anni zero attorno al nucleo storico composto dall'axeman Rob Cavestany e dal singer Marl Osegueda (entrambi di origine filippina) ma è con gli ultimi due lavori, The dreams call for blood e l'ultimo, oggetto di questa recensione, che il combo sembra aver raggiunto un'autentica seconda giovinezza, se possibile ancora più luminosa della prima.
Le dieci composizioni (più una bonus track) che compongono l'album rispondono ai classici stilemi del sottogenere metal di riferimento, ma a fare la differenza, oltra alla qualità delle canzoni, è l'ottima resa sonora, l'essere cioè riusciti, da parte dei Death Angel, a concentrare entro massimo cinque minuti le proprie cavalcate elettriche, gli strappi, i rallentamenti acustici, evitando di perdersi in fronzoli e nelle ormai inutili tattiche dilatorie nelle quali troppo spesso il thrash onanisticamente si specchia.
La tracklist di conseguenza non ha cedimenti, avanza compatta e stentorea potendo contare su brani potentissimi come The moth, lezione universitaria di thrash metal, esercizi di classic hard rock come Lost o featuring corroboranti, come quello di Andreas Kisser (chitarra dei Sepultura) in Hatred united/United hate.
Insomma, una bella botta di adrenalina.