giovedì 23 novembre 2017

L.A. Guns, The missing peace


L'undicesimo lavoro di studio degli L.A. Guns può essere considerato a pieno titolo come un vero e proprio reunion album, visto che vede tornare sotto lo stesso tetto Tracii Guns, unico membro fondatore superstite, e Phil Lewis, il singer presente sul trittico d'esordio del gruppo, rilasciato nell'orizzonte temporale dal 1988 al 1991 (L.A. Guns, Cocked & loaded; Hollywood vampires) e unanimemente considerato l'apice creativo della band.
Nel tempo la diaspora tra i due aveva raggiunto livelli tali di conflittualità da generare (caso abbastanza unico nel music business) due distinte L.A. Guns che giravano in tour spacciandosi ciascuna per la formazione autentica. Considerato il moderato bacino di consensi del combo, mi sovviene un paragone con i partiti della sinistra italiana che, pur ridotti ai minimi termini, continuano a litigare e scindersi. 

Comunque. Rinvigorite da un nuovo contratto con l'italiana Frontiers Music e corroborate dall'ottima accoglienza dell'ultimo tour (gli amici che li hanno visti al Frontiers Festival a Trezzo li hanno eletti mvp delle due serate),  le Pistole tornano a tuonare come non gli accadeva da tempo. Lo stile è quello ormai consolidato: un robustissimo sleaze-metal anello di congiunzione tra Motley Crue e Guns 'n' Roses. A fare la differenza questa volta è probabilmente un'ispirazione non banale e una convinzione ritrovata, ben evidenziate da un disco che parte con il piede a martello sull'acceleratore e non si ferma (tradotto, non piazza un lento) fino alla traccia numero cinque.
La dimostrazione che si possa fare musica derivativa (anche di sè stessi), e restare credibili, è data da una manciata di brani che si elevano sopra la comunque notevole media, in particolare Speed, tributo-rimando ai Deep Purple e alla loro Highway star, il cui testo viene brevemente ripreso, lanciata da un incipit assolutamente prevedibile, quasi calligrafico nel suo svolgimento, ma lo stesso capace di regalare un calcio nel culo che ti alza un metro da terra. 
L'andamento della tracklist è da manuale, con un lento come Christine piazzato strategicamente al posto giusto e un'ultima parte di titoli che tiene alta la tensione, grazie  alle vigorose Don't bring a knife to a gunfight e The devil made me do it prima delle growin' ballads conclusive The missing peace e Gave it all away.

Sembra incredibile, ma ancora oggi, a oltre sei lustri dai fasti e dalle illusioni dell'Hollywood Boulevard, esiste ancora qualcuno di quei (ormai attempati) protagonisti che riesce a regalare ai fan dello street/sleaze un disco imperdibile, certificando che, se si perseguono obiettivi rispondenti alla propria storia, l'unione paga. 
Assioma che purtroppo la sinistra italiana non comprenderà mai.

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