lunedì 22 aprile 2024

George Simenon, L'uomo che guardava passare i treni (1938)



Kees Popinga, impiegato e contabile di un'azienda navale di Groningen, riceve dal suo datore di lavoro una notizia ferale: la ditta è in bancarotta e il suo capo gli anticipa che si darà alla fuga per godersi i soldi trafugati nel corso degli anni. Lo stesso Popinga, che da contabile non si era mai accorto di nulla, oltre a restare disoccupato rischia di andare a processo, ed è pressochè certo che perderà la sua bella casa, oltre che il rispetto della famiglia. Dopo una notte insonne, l'uomo decide come reagire.


Una volta entrati nella grammatica simenoniana si perde un pò dello stupore delle prime volte (ma non accade anche per altre forme d'arte, la musica soprattutto?), in particolare relativamente alla modernità degli accadimenti dei suoi romanzi: il realismo, la violenza, il desiderio che esplode improvviso, violento, ottuso, inarrestabile. Il caso che cambia le esistenze. E pur tuttavia, anche senza quel fanciullesco senso di sorpresa nel leggere roba di settanta, ottanta anni fa così sovrapponibile ai nostri tempi, resta comunque la spirale irresistibile in cui ti intrappola lo scrittore belga che si conferma comunque fenomenale nella consapevolezza di quali corde toccare, soprattutto nei riguardi del medio borghese e della sua illusione che casa, moglie e figli, essendo i requisiti indispensabili a soddisfare le convenzioni sociali (ora come allora), possano anche dare compiutezza e felicità.

E invece, analogamente al personaggio di Lettera al mio giudice, anche a Kees Popinga, protagonista de L'uomo che guardava passare i treni, accade qualcosa che, imprevedibilmente e in maniera repentina, gli rivoluziona la vita, con effetti che vanno ben oltre la mera causa. Se nell'altro romanzo era la conoscenza di una donna, qui è il fallimento del datore di lavoro di Popinga a provocare un'escalation che salda assieme desideri repressi e fuga, crimini ed ingenuità del grigio impiegato.

I compagni di viaggio che Kees troverà sulla sua strada di fuggiasco e clandestino sono tracciati da Simenon senza una netta dicotomia. Dalla parte dei reietti della società (malviventi, prostitute e imbroglioni) l'ex impiegato trova sia aiuto che fregature, nella polizia che lo insegue più incompetenti che segugi, dalla stampa (come nel caso di Lettera al mio giudice) banalità ed irritanti semplificazioni in merito ai suoi atti.

Fin qui, senza aver mai letto nulla di Maigret, i noir psicologici di Maigret non mi hanno mai deluso ne lasciato indifferente. L'uomo che guardava passare i treni rispetta in pieno la regola.

lunedì 15 aprile 2024

Grian Chatten, Chaos for the fly (2023)

Per quello che mi riguarda, i Fontaines DC hanno rappresentato la novità più interessante nell'ambito del recente panorama musicale internazionale. Considero i tre album fin qui rilasciati (Dogrel, A hero's death e Skinty fia) esempi di una trasversalità musicale non comune e fatico davvero a considerare anche uno solo dei brani ivi contenuti banali filler. Un'onda poderosa insomma, dotata di una forza tale da farmi accantonare un intero movimento (quello metal), che era tornato ad accompagnarmi da lustri, e che mi ha incuriosito al punto da indurmi a scandagliare il vasto panorama del revival post punk (senza peraltro mai riuscire a replicare l'epifania raggiunta con il gruppo irlandese).

Nonostante ciò, a riprova del fatto che sto perdendo colpi, non sapevo che il cantante/frontman della band avesse pubblicato un album solista. Me ne sono accorto solo controllando le liste dei migliori dischi del 2023 delle varie riviste, dove, in qualche caso, veniva citato questo Chaos for the fly. La prima cosa che ho fatto, prima di recuperarlo, è stato cercare informazioni sul futuro dei Fontaines DC e solo dopo le rassicurazioni di rito (sarebbero al lavoro sul successore di Skinty fia) mi sono concentrato sull'ascolto di questo solo project, che deve il suo titolo ad una battuta della Morticia della famiglia Adams: "What's normal for the spider...is chaos for the fly".

Non ho mai capito il senso dei progetti solisti in cui membri di band ancora in attività si prendevano una pausa per... replicare l'identico sound della formazione di provenienza. E guardate che è quasi sempre così. Chatten non lo fa, e già qui ci siamo. Il disco a suo nome è un patchwork straniante di stili e umori che hanno forse come unico denominatore comune un'oscurità e una malinconia di fondo, anche laddove, apparentemente, le atmosfere sono rilassate, quasi spensierate.

L'attacco è per The score, un brano che ci riporta a quel movimento new folk che ha attraversato gli anni zero (Midlake, Fleet Foxes, Grizzly Bear), che non brillava certo per allegria. La combo testo musica è comunque estremamente valida e probabilmente la scelta di aprire il lavoro con un brano così esprime una precisa volontà di imprinting. La successiva Last time every time forever, è forse quella inizialmente più assimilabile alle cose Fontaines DC, ma ecco che quando entra un controcanto femminile la percezione muta radicalmente.

Pochi brani e risulta evidente come l'approccio a queste canzoni da parte di Grian sia crooneristico, da cantante confidenziale, ben lontano quindi dai suoi inizi legittimamente sgraziati e post punk sull'esempio di Ian Curtis. Questa modalità viene esaltata soprattutto in brani dal sapore quasi lounge come Bob's Casino (dove il nostro, novello Dean Martin, ospita la fidanzata Georgie Jesson per un duetto che riporta alla mente i vari che si sono succeduti nel tempo per Somethin' stupid)  nel quale trova spazio anche una tromba che tanto ricorda Herp Alpert. Lo stesso dicasi per un'altra traccia che viaggia leggera sulle stesse ali dell'easy listening anni sessanta: East coast bed.

C'è poi lo skiffle-folk di Salt thowers off a truck e di Fairlies ad intervallare i momenti più introspettivi, perchè, come scrivevo, il disco è pervaso da una sua anima nera, oscura, che emerge quasi a prescindere dalle intenzioni dell'autore e che si nasconde in brani come l'opener o All of the people, I am so far, per poi manifestarsi, bellissima e malinconica, nella conclusione di Season for pain.

Nessun caos qui dentro. Semplicemente un disco che si farà ricordare.


lunedì 8 aprile 2024

Antidisturbios: Unità antisommossa (2020)

Torno dopo tanto tempo a commentare una serie, ma ne vale davvero la pena. Si tratta di Antidisturbios (Unità antisommossa l'aggiunta nella versione italiana), produzione spagnola ideata, scritta e, in parte, girata, da Rodrigo Sorogoyen, regista dietro la mdp per, tra gli altri, gli ottimi film Che dio ci perdoni e Il regno, nonchè del recente As bestas, di cui ho letto un gran bene, ma che non sono riuscito a recuperare su nessuna delle piattaforme a cui sono abbonato.

La vicenda trae spunto dallo sfratto di una palazzina a Madrid occupata da immigrati clandestini e abusivi spagnoli, operazione di polizia attraverso la quale facciamo la conoscenza dei sei "celerini" incaricati dello sgombero. Ecco, il pilota della serie (ognuno dei sei episodi complessivi porta il nome di un character, il primo è Osorio), è girato (da Sorogoyen) in maniera magistrale e totalmente ansiogena, immersiva. Le sequenze dello sfratto, dall'attesa alla fase della trattativa con gli inquilini fino all'azione, ti portano dentro quel complesso residenziale con un'angoscia e una soggettiva non comune, non solo nelle produzioni televisive, ma anche in tanto cinema di genere. Qualcosa di veramente raro ed eclatante. Inevitabilmente nelle puntate successive questo picco qualitativo cala un pò, mantenendo tuttavia un livello più che alto, grazie, soprattutto, alla scelta degli interpreti dell'unità antidisturbios, alle loro facce, tutte credibili e "ordinarie", alla loro fisicità, soprattutto quando è sofferente, e alla bravura degli sceneggiatori, che ti portano a solidarizzare con una squadra della celere spagnola composta da probabili nostalgici franchisti, inconsapevole ingranaggio di una macchina politico-finanziaria molto più reazionaria e spietata di loro.

Protagonista è Laia Urquijo, l'agente degli Affari Interni che indaga sui fatti dello sgombero, interpretata da una convincente Vicky Luengo, che ci restituisce un personaggio idealista, ma al tempo stesso intransigente e disposto a sacrificare ogni cosa per raggiungere i suoi scopi. Dovendo scegliere uno degli attori protagonisti della squadra, Osorio/Hovik Keuchkerian, Diego/il veterano Raùl Arèvalo e Ubeda/Roberto Alamo lasciano il segno. 

La Urquijo e Keuchkerian si ritroveranno come protagonisti in un'altra riuscita produzione spagnola, più orientata al puro intrattenimento di genere: Regina rossa, tratta dai romanzi di Juan Gòmez-Jurado. Magari parlerò anche di questa, ma se avete tempo solo per una serie, non fatevi sfuggire Antidisturbios.

Disney +

giovedì 4 aprile 2024

My Favorite Things, marzo 2024

ASCOLTI

Sierra Ferrell, Trail of flowers
Beyoncè, Cowboy Carter
Cody Jinks, Change the game
Rod Stewart with Jools Holland, Swing fever
The Black Crowes, Happiness bastards
Gossip, Real power
Judas Priest, Invincible shield
The Jesus and Mary Chain, Glasgow eyes
Low Cut Connie, Art dealers
Mick Mars, The other side of Mars
Eric Clapton, Homeboy (OST)
Howard Jones, Human's lib / Dream into action
Cò Sang, Chi more pè me
Michael Jackson, Invincible
Reload, A collection of short stories
Grian Chatten, Chaos for the fly
Herbie Hancock, Head hunters
Michael Jackson, Invincible
Turnpike Troubador, A cat in the rain
Zakk Sabbath, Doomed forever Forever doomed

Mono/Playlist

Depeche mode
Kraut rock


VISIONI

Ai calci di rigore (3/5)
The Caine mutiny court martial (3,5/5)
No blood no tears (3,5/5)
La sala professori (3,75/5)
It comes at night (3,5/5)
Dune - parte due (4/5)
American fiction (3,5/5)
La società della neve (3/5)
Equalizer 3 (2/5)
The haunted - La preda (2,5/5)
Thanksgiving (3/5)
Un altro ferragosto (2,5/5)
Quinto potere (3,75/5)
Totally killer (3/5)
Big bad wolves (3,5/5)
La zona d'interesse (4/5)
The burial - Il caso O'Keefe (2,75/5)
Ogni cosa è illuminata (3,75/5)
50km all'ora (2/5)
Gran Turismo - La storia di un sogno impossibile (2,5/5)
May December (3,5/5)
L'assoluzione (1981) (2,75/5)

in grassetto i film visti in sala

Visioni seriali

Una famiglia quasi perfetta (2,75/5)
Regina rossa (3,5/5) 



LETTURE

Javier Marìas, Domani nella battaglia pensa a me




lunedì 1 aprile 2024

Depeche Mode - Milano, 28/03/2024

foto adnkronos https://www.adnkronos.com/spettacoli/depeche-mode-conquistano-milano_2RdzeZ4GaemOfNOKP0OooJ

Osservo il grande palco prima dell'inizio del set e noto la totale assenza di strumenti, al netto di tre postazioni, una di batteria e due di tastiere/sintetizzatori. Il resto è tutto spazio libero che Gahan si prenderà da consumato entertainer. 

Mancavo i Depeche Mode in concerto da oltre un quarto di secolo, era il settembre del 1998 per il tour che accompagnava la pubblicazione dell'antologia The singles 86-98. Fu un concerto estremamente piacevole, anche perchè, in assenza di brani inediti da promuovere, la band si concentrò esclusivamente su vecchi classici e recenti hit già assimilate.

A distanza, appunto, di oltre cinque lustri, molto è cambiato. Su tutto ovviamente la prematura scomparsa del membro fondatore Andy Fletcher. Ma molto è rimasto uguale a sè stesso. Giurerei ad esempio che Gahan, dalle scarpe bianche al gilet, passando per la giacca, abbia indossato nei dettagli lo stesso outfit del '98. 
Tornando seri, a non essere cambiata, se non in meglio, è la voce del frontman dei DM, potente, pulita e profonda, a dimostrazione di una vita ora condotta nel segno della corretta condotta salutistica e del professionismo.

Dopo un canonico, breve set di apertura dei Deeper, band di Chicago che viene a dirci quanto la lezione dei Cure sia ancora pedissequamente mandata a memoria dai giovani virgulti, con una puntualità da me sempre apprezzatissima (in quanto forma di rispetto per chi magari è lì dal mattino e poi sotto il palco da ore - non il mio caso che sono col culo sulle poltroncine del secondo anello - ) parte, con uno stage immerso nella penombra, l'open track dell'ultimo Memento mori, il cupissimo industrial-gospel distopico ed evocativo My cosmos is mine. Con la successiva Wagging tongue, sempre dall'ultimo lavoro, si chiude la doppietta iniziale che permette all'ugola di Gahan di raggiungere la giusta fasatura.

Da lì in avanti ci saranno solo altri due brani, sui ventuno complessivamente eseguiti, da Memento mori (Ghosts again e l'ottima Before we drown) e poi via col revival delle musiche più adorate dalle masse (cit.) , da Walking in my shoes alla conclusiva Personal Jesus, in mezzo, tra le altre, Policy of truth, Black celebration (dedicata, forse un pò freddamente, a Fletcher), Enjoy the silence, Stripped, Never let me down again, per una setlist, quella del leg 2024 del tour, sostanzialmente bloccata.

Curiosamente, l'highlight della serata è però uno degli unici due pezzi cantati da Martin Gore, che si è esibito in una versione solo piano (suonato dal tour member, anch'egli ormai storico, Peter Gordeno) e voce di Strangelove. Un'interpretazione che mi ha riempito il cuore di emozione e gli occhi di lacrime. Subito dietro, in ordine di apprezzamento soggettivo, il pezzo che più aspettavo, A pain that I'm used to, una canzone che adoro, regalata in una versione molto più carica e aggressiva dell'originale e peraltro l'unica in cui Gordeno abbandona la confort zone di tasti e pulsanti per imbracciare il basso (strumento assente per il resto del concerto, ovviamente "compensato" dal lavoro di campionamento e sintetizzatori).

Alla fine saranno oltre due ore di show impeccabile, ad alto livello di intrattenimento, anche per la consueta trascinante partecipazione del pubblico, costantemente coinvolto nei cori da Martin e Dave, che in più di un'occasione ha portato l'esibizione dei brani ai "tempi supplementari" trascinando oltre il previsto il sing-along (in un'occasione, per l'assonanza del coro al pezzo dei Doors, Gahan ha accennato a Riders of the storm), al punto da far esclamare a David: "so much better than Torino!", la precedente serata italiana dove, si deduce, evidentemente l'accoglienza è stata meno entusiastica.

Qualche considerazione sparsa tra il personale e lo statistico. I Depeche Mode non sono mai stati un mio riferimento. E pur tuttavia, inevitabilmente, hanno attraversato una parte della mia vita, in particolare i primi novanta (ricordo ancora in quale occasione comprai la MC di Violator) quando produssero due dei dischi, a posteriori, tra i più influenti di sempre: Violator, appunto, e Songs of faith and devotion, un lavoro dal travaglio traumatico e doloroso che però, nel 1993, si guadagnò persino il rispetto del movimento grunge, in quel periodo al massimo della sua radicale espressione. Negli stessi anni arrivò l'ulteriore affermazione grazie alla cover di Personal Jesus di Johnny Cash e il resto, come si dice, è storia.

I DM sono insomma una delle pochissime band nate al tramonto dei settanta, sull'onda di un nascente, grande contenitore musicale comunque collocato nel vasto movimento post punk (l'elettronica e il synth-pop), che più sono progredite ed evolute (quanti gruppi con un pezzo come Just can't get enough sarebbero morti da one-hit-wonder?) e che nel corso del tempo meno hanno toppato le scelte artistiche, al punto che, a memoria, non ricordo un loro album completamente cannato, e anzi. 
Oggi Gahan/Gore sono sì una micidiale macchina da soldi che attraverso le turnè muove masse oceaniche all over the world, ma  con un repertorio ultraquarantennale che ha pochi eguali nell'intero music biz e, come detto, con una progressione continua di musiche e testi tale da far stonare, nel contesto artistico attuale, l'irrinunciabile (per i fans) interpretazione di una canzoncina come Just can't get enough che, rispetto a pezzi moderni quali A pain that I'm used to, Before we drown o Precoius, sembra un'elementare melodia composta da un bimbo con la pianola giocattolo della Bontempi.


foto da rockol: https://www.rockol.it/gallerie-fotografiche/7612/28-marzo-2024-forum-assago-mi-depeche-mode-in-concerto/543750

lunedì 25 marzo 2024

L'ammutinamento del Caine: corte marziale (2023)


Davanti ad un tribunale militare, il capitano della marina Queeg sostiene le ragioni della denuncia al suo sottoposto, tenente Maryk, per ammutinamento, avendolo quest'ultimo sollevato dall'incarico, per presunta instabilità mentale. La corte dovrà esprimere  un giudizio, con il dibattimento affidato, per la difesa, ad un estremamente riluttante ma leale Barney Greenwald e, per l'accusa, all'aggressiva Katherine Challee. 

Confesso di non aver visto (almeno a mia memoria) nessuna delle precedenti riduzioni dell'opera teatrale di Herman Wouke. Probabilmente non avrei visto nemmeno questa, non fosse che si tratta dell'ultima regia di William Friedkin (scomparso ad agosto 2023) e, ma questo l'ho scoperto solo dai titoli di coda del film, l'ultimo ruolo dell'attore Lance Reddick (marzo 2023): una lunga carriera sia nel cinema che, in particolare, nelle produzioni televisive. Curiosamente, essendo Reddick scomparso subito dopo le riprese e la post-produzione del film, i titoli dedicano la pellicola alla sua memoria e non a quella di Friedkin.

L'ammutinamento del Caine: corte marziale pare dovesse uscire nelle sale, tant'è che viene presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia, poi però finisce in un limbo distributivo, non vede mai i cinema e arriva in sordina su Paramount plus e nelle schede del cast finisce sotto la voce film tv.

Pur ammettendo che lo stile rimanda a quel tipo di prodotto, essendo il film girato sostanzialmente in un unico ambiente, il buon cast, la messa in scena, i dialoghi, la tensione e il ritmo non c'è dubbio siano da classe superiore. 
La vicenda si apre con il tenente Greenwald (il caratterista Jason Clarke, davvero in parte), nel ruolo di avvocato difensore, che informa l'imputato di aver accettato la sua difesa per dovere, ma che, avendo potuto scegliere, non lo avrebbe fatto, per il disonore recato alla marina. 
Già qui ci troviamo di fronte ad un incipit anomalo, rispetto a tanti legal drama, al punto che il giudice Blakely chiede al tenente Maryk (Jake Lacy) se abbia intenzione di cambiare legale. Lacy viene rassicurato da Greenwald e il processo continua, tra gli interrogatori all'assalto della procuratrice Challee (Monica Raymund) e la strategia difensiva di Greenwald. In mezzo un capitano Queeg, interpretato magistralmente da Kiefer Sutherland, che, inesorabilmente, passa dal ruolo di vittima a quello di accusato.

La tecnica di Friedkin è una lectio magistralis di primi piani, campi e controcampi che assecondano l'incremento della tensione, anche grazie alle prove attoriali (segnalo quella molto espressiva della Raymund, anche lei tante serie tv - Lie to me la principale - ). La conclusione del film, non mi riferisco all'esito del processo, quanto alla coda, è l'ennesimo colpo d'autore di Friedkin, che opera un costante ribaltamento dei ruoli, tra vittime e carnefici, definendo l'integrità militare, forse anche un pò reazionaria, di Greenwald.

Da vedere. Non solo per un doveroso saluto di commiato ad un grande regista.

Paramount +


giovedì 21 marzo 2024

Piana/Vesco, Dammi un segno (una recensione)

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, la recensione di Vale Sapisi di un romanzo romantico che affronta il tema della sordità.

Quando, qualche anno fa, iniziai a studiare la Lingua dei Segni ne ero totalmente affascinata, grazie ad essa scoprii una comunità e la sua cultura. Cominciai a partecipare alle attività organizzate dalle associazioni di sordi, m'impegnai in una serie di attività di volontariato e scrissi anche qualche racconto con l'intento di trasmettere il mio entusiasmo e far conoscere la condizione dei sordi. Rileggendoli però, non mi piacquero, avevano qualcosa di artificiale, falso. Li misi da parte e non ci pensai più. Oggi sono abbastanza convinta che per scrivere di disabilità bisogna conoscerla molto, molto bene, e avere delle capacità letterarie solide. Se poi a scrivere è un disabile, ancora meglio. Al primo anno di corso LIS lessi “Il grido del gabbiano”, l'autobiografia dell'attrice sorda Emanuelle Laborit e, anche se non era un capolavoro a livello letterario, mentre lo leggevo sentivo di comprendere almeno un po' dei sentimenti che l'autrice provava la sua condizione.

 “Dammi un segno” è la storia d'amore tra un ragazzo sordo (Brando) e una ragazza udente (Sofia). Si incontrano sul tram ogni sera ma nessuno dei due ha il coraggio di fare la prima mossa. Quando infine riescono a dichiararsi entrano uno nel mondo dell'altra. Sofia e la sua coinquilina Nina conosceranno gli amici di Brando, Daniele e Mauro, e la comunità sorda alla quale appartengono. L'idea non è nuova, tutti ricordano “Figli di un dio minore” in cui si seguiva la nascita di un sentimento tra un insegnante udente e una giovane sorda, però non è detto che la stessa trama non possa svilupparsi in modo nuovo, dato che la società è cambiata e, anche se tuttora l'inclusione non è stata raggiunta, la sordità è più conosciuta.

Però, devo dire, sono rimasta abbastanza delusa da questa lettura, principalmente perché non ho trovato una narrazione soddisfacente della disabilità: anche se in queste pagine se ne parla e ci sono dei lunghi monologhi dei protagonisti rispetto al loro passato (infanzia e prima giovinezza), non ho avuto la percezione di cosa comporti essere sordo, quali siano le conseguenze nella vita quotidiana. I ragazzi sordi comunicano perfettamente e non hanno mai un problema; Sofia e Brando si capiscono troppo bene, io e il mio ragazzo siamo entrambe udenti e ogni tanto litighiamo, magari travisiamo quanto ha detto l'altro, come può essere che tra due giovani che vengono da realtà così diverse sia sempre tutto tanto perfetto?

E poi, non viene esplicitato il modo in cui i personaggi comunicano. Io che ho fatto i corsi  Lis so che i sordi possono segnare o leggere il labiale e parlare, ma mi chiedo cosa possa capire chi non conosce la sordità. Ci sono anche momenti che mi hanno lasciata molto perplessa, come quando si scopre che Sofia non ha mai fatto incontrare Brando ai suoi genitori e (spoiler) questi scopriranno che il futuro marito della figlia è sordo solo il giorno del matrimonio. “Non volevo creare imbarazzo” dice lei, ma a me non sembra una cosa molto carina, soprattutto verso il povero Brando, tenuto nascosto ai futuri suoceri, come se ci si vergognasse di lui.

A parte questo, la storia si svolge in modo poco realistico (spoiler), il viaggio dei tre ragazzi sordi in Giappone, India, Sud America va troppo liscio, tutti li capiscono al volo e tutti sono gentili e disponibili, va sempre tutto bene, come se si trovassero a Milano o Venezia. Sofia, dal canto suo, impara la LIS  nel tempo in cui Brando è in viaggio: mi viene in mente che forse io e tutti gli altri allievi dei corsi dobbiamo essere poco svegli, visto che ci abbiamo messo almeno 3 anni. Insomma, nel racconto c'è molta approssimazione. La Cultura Sorda non viene mostrata, ma spiegata in lezioni didascaliche che Sofia e Nina impartiscono a malcapitati (amici, parenti...) ogni volta che hanno l'occasione.
 A coronare tutto questo un finale che definire prevedibile è poco.

Mi dispiace doverlo dire, ma questo libro è semplicemente brutto, affronta un tema importante in modo goffo e superficiale, con una scrittura veramente povera e infantile, e questo è tanto più grave considerato che i protagonisti sordi sono ispirati a persone reali e Daniele e Mauro hanno collaborato con le loro storie al romanzo. Le loro esperienze, come quelle delle persone che fanno parte della comunità riportate al termine del volume, avrebbero meritato ben altra scrittura. Un vero peccato.


lunedì 18 marzo 2024

Brad Mehldau, Your mother should know (2023)

La liason del jazz con la musica cosiddetta leggera è solida, antica e strutturata, non inizia certo negli anni ottanta (che però sì, sono il decennio in cui del connubio si è più tristemente abusato) con Miles Davis che rifaceva Human nature e Time after time. A riprova di ciò le cronache ci riportano nei primi settanta un Miles, che al grande successo di massa ha sempre anelato, segnarsi nell'agenda degli impegni una jam con Jimi Hendrix, purtroppo giusto qualche giorno prima che il più grande chitarrista di tutti i tempi trovasse la morte con una modalità così dannatamente idiota. Il disco jazz con i pezzi di Jimi lo realizzerà poi (1974) il pianista Gil Evans assieme ad un'orchestra di venti elementi (qui una mia breve, indegna recensione). Tralasciando peraltro l'intuizione più spettacolare di tutte ad opera di John Coltrane, che da una banale canzoncina da musical ha tirato fuori uno dei pezzi jazz per cui vale la pena vivere, My favorite things

Perciò, ecco, forse non è più nemmeno il caso di parlare di liason, piuttosto di matrimonio duraturo, e al critico rimane solo da capire se tra i due (generi) si tratti di vero amore o piuttosto di mero interesse. 
Brad Mehldau, pianista americano della Florida, che dal 1993 ad oggi ha al suo attivo più di quaranta album (per dire, ha già dato due successori all'album del 2023 oggetto di questa recensione) con il pop e il rock ha sempre limonato, a titolo esemplificativo e non esaustivo basterebbe sfogliare le tracklist dei cinque volumi, distribuiti nel tempo, di The art of  the Trio, dove ascoltiamo rapiti esecuzioni che passano da brani di musical, Radiohead, Nick Drake, classici da crooner, fino ai Beatles. 
I Beatles, appunto. Dopo quella gemma di Blackbird (The art of  the Trio, volume 1 - 1997 - ) che, vabè, è solo il mio pezzo dei fab four preferito di sempre, il buon Brad decide di dedicare un intero lavoro alla musica della mitologica band (giudizio che prescinde dal mio gusto personale).

In una tracklist di undici pezzi, dieci sono dedicati alle composizioni della ditta Lennon McCartney (uno per amore di verità è del solo George Harrison) pescando, con condivisibile saggezza, nel repertorio meno noto dei Beatles, al netto di due pezzi, I saw her standing there e I am the walrus, che comunque definirei mediamente conosciuti. Per il resto, dalla title track a For no one, a Golden slumbers o Maxwell's silver hammer, si naviga nel repertorio più nascosto e raffinato della band, scandagliando soprattutto Revolver (tre brani) e Abbey road (due) che permettono a Mehldau di dipingere i consueti sapienti arazzi armonici, questa volta con sfumature anche blues (Golden slumbers) o boogie/ragtime (I saw her standing there). 
Il disco è registrato dal vivo assemblando una serie di serate a Parigi, e si chiude con un pezzo che dei Beatles non è, ma che, porca miseria, risulta il più bello, malinconico e struggente del lotto: Life on Mars? di David Bowie. 
Quale che sia il motivo della scelta in controcorrente sulla filosofia dell'operazione, affinità alle melodie beatlesiane o banalmente non voler disperdere un'interpretazione magistrale, una conclusione satura di poesia ed emozione per un disco sicuramente da ascoltare e riascoltare.

giovedì 14 marzo 2024

Recensioni capate: Un altro ferragosto


Rieccoci a Ventotene, quasi trent'anni dopo l'ultima volta (Ferie d'agosto, 1996), con la maggior parte del cast originale, orfano però di Piero Natoli e Ennio Fantastichini (hai detto niente) a replicare la "lotta di classe" virata in una commedia all'italiana che si vorrebbe nobile parente degli Scola, dei Monicelli, ma sì, anche del migliore Virzì. 
S'è già capito che non ho gradito? 
Laddove l'opera originale era un imperfetto gioiellino, che traeva dall'equilibrio tra commedia e dramma, dentro le differenze sociali/politiche dei characters, la sua forza, vale a dire che su clichè e contraddizioni di entrambi gli schieramenti ci si potevano divertire anche i berluscones (almeno quelli dotati di un minimo di senso di autocritica e umorismo) e la malinconia di fondo era centrata sull'infelicità di esistenze gettate in pasto alle convenzioni sociali/morali, qui, per far ridere, Virzì deve ricorrere alle maschere di un De Sica in versione cinepanettone e per toccare le corde emotive far leva sulla tragedia della morte. Sprecatissimi, a mio avviso, Orlando e la Morante, eccessivamente sopra le righe un comunque bravo Marchioni, ma se la migliore prova attoriale rischia di essere quella di Sabrina Ferilli, compagni abbiamo un problema. 


Al cinema

lunedì 11 marzo 2024

Recensioni capate: Jim Thompson, L'assassino che è in me (1952) - audiolibro

Sostiene Stephen King, nell'appassionante prefazione a questo romanzo (da leggere in realtà come postfazione, visti i numerosi "spoiler"), che Jim Thompson nella sua prolifica bibliografia abbia scritto tanti hard boiled usa-e-getta a esclusivo scopo alimentare, con qualche significativa eccezione, laddove  ha invece realizzato dei capo d'opera, se non proprio capolavori. 

Uno è senza dubbio questo L'assassino che è in me, agghiacciante viaggio nella mente deviata di Lou Ford, assassino seriale che come copertura svolge la mansione di vice sceriffo in una cittadina del Texas. Una di quelle province americane modello Springfield dei Simpson, in cui ognuno, dal miliardario al ragazzo della pompa di benzina, recita una parte e tutti si conoscono, l'unica differenza con i personaggi creati da Matt Groening è che Thompson ne dà una versione in acido.  Lou si camuffa bene tra i volti noti del paese, ma nasconde un animo brutale e omicida totalmente privo di freni, vincoli morali ed empatia. Fin qui certo, si può parlare solo parzialmente di trama in anticipo sui tempi, e in effetti è sul linguaggio che Thompson è avanti mezzo secolo. Quando può parlare liberamente, e in genere succede un attimo prima di uccidere la sua preda, Lou non ha limiti, come quando minaccia chi gli sta davanti di scoparlo con una pannocchia avvolta nel filo spinato che conserva per le occasioni speciali. La brutalità delle sue azioni si amplifica laddove l'autore le scatena non per impeto d'ira ma a valle di una lucida preparazione con annesso afflato liberatorio, gonfiato dalla lunga attesa, che si porta via ogni paravento pubblico e decoro morale. 

Dal romanzo nel 2010 è stato tratto un film di Michael Winterbotton con un buon cast (Casey Affleck, Jessica Alba, Bill Pullman, Kate Hudson) che non gode di buona stampa, ma che non ho avuto modo di vedere per farmi un'idea personale.

giovedì 7 marzo 2024

MFT, gennaio febbraio

ASCOLTI

Lankum, False Lankum 
John Mellencamp, Orpheus descending
Steve Earle, Jerry Jeff
Brad MehldauYour mother should know
Howard Jones, Human's lib
Howard Jones, Dream into action
Zakk Sabbath, Doomed forever forever doomed 
Idles, Tangk
Mick Mars, The other side of Mars
Pain of Truth, Not through blood
Patti Smith, Land
Saxon, Hell, fire and damnation
Sierra Ferrell, Long time coming
Grian Chatten, Chaos for the fly

Monografie/Playlist

Post Punk/New Wave 1978/1984


VISIONI


Foglie al vento (3,75/5)
La casa degli oggetti (2/5)
Margini (4/5)
The Whale (2,75/5)
Indiana Jones e il teschio di cristallo (2,75/5)
Indiana Jones e il quadrante del destino (2,75/5)
Anything else (3,5/5)
Perfect days (5/5)
Tàr (3,5/5)
Hai mai avuto paura? (3,5/5)
The holdovers - Lezioni di vita (3/5)
The creator (3,5/5)
Oppenheimer (3,75/5)
Reinfield (3/5)
The Beekeeper (2/5)
Jimmy Bobo - Bullet to the head (3/5)
Kimi - Il futuro è in ascolto (3,5/5)
Argylle - La super spia (2/5)
Dampyr (3,25/5)
L'ordine del tempo (2,5/5)
Basic (2,75/5)
La sconosciuta (3,5/5)
Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (3,25/5)
The Tranfsormes - Il risveglio (3/5)
Un uomo da marciapiede (3,75/5)
Bumblebee (3,25/5) 
Night swim (2/5)
Interstellar (3,25/5)
Io, Capitano (3,5/5)
Past lives (3,5/5)
Baxter (3/5)

















in grassetto i film visti in sala

Visioni seriali

Tin star (2,5/5)
Succession, 3 (3,5); 4 (3,5)
True Detective - Night Country (3,25/5)

LETTURE

Emmanuel Carrère, Limonov
Javier Marìas, Domani nella battaglia pensa a me

lunedì 4 marzo 2024

Oliver Stone, Cercando la luce (Autobiografia)


Per il sottoscritto (stavo per scrivere per quelli della mia generazione, ma non ne sono così sicuro) Oliver Stone è stato il primo regista, tra i contemporanei, di vero culto. Nel periodo che va dal 1986 (Platoon) al 1995 (Nixon) seguivo ogni suo passo artistico, anche grazie a quella che all'epoca mi sembrava (e allora forse lo era) la condivisione di un'aderenza ideale nel perlustrare e mettere in luce gli anfratti più polverosi e celati della controversa storia americana.
Con queste premesse le quasi seicento pagine di Cercando la luce non potevano per me rappresentare un ostacolo, al contrario erano un invito ad una rimpatriata con un vecchio amico, quasi la chiusura di un cerchio, se non il saldo di un debito di riconoscenza.
Mi piace pensare che allo stesso Stone la scrittura sia servita ad una sorta di riconcilio con il suo passato, dato il grande spazio concesso alla narrazione della vita dei suoi genitori (papà militare che durante la seconda guerra mondiale conosce la mamma in Francia), delle loro debolezze, delle assenze, dei tradimenti, fino al divorzio.

Il giovane Stone passa da un'esperienza "estrema" all'altra fino alla svolta di arruolarsi per il Viet-Nam, decisione che, come noto, condizionerà pesantemente la sua vita fino a quando, tornato a casa, non deciderà di tentare, inizialmente come sceneggiatore, la strada del cinema. 
Anche qui, molte sono le pagine dedicate ai suoi primi tentativi, fino alle affermazioni degli script di Fuga di mezzanotte, Conan il barbaro e Scarface che fecero di Oliver uno degli sceneggiatori più ricercati di Hollywood, e, pur tuttavia, i soggetti a cui lui più teneva, Platoon e Nato il quattro luglio, restavano imprigionati in un limbo di false speranze e cocenti delusioni in merito alla loro realizzazione, passando da un produttore (sono al vetriolo le parole usate dal regista nei confronti di Dino De Laurentis) all'altro senza riuscire mai a vedere la luce. 
Nel frattempo Stone esordisce come regista con l'atipico horror La mano e, soprattutto, inizia il primo dei suoi set realmente pericolosi e avventurosi, rappresentato da Salvador, film che a lungo andare ottiene un buon riscontro. 

Finalmente, dopo più di una peripezia, con risorse economiche incerte e più volte sforate, usando un cast di (all'epoca) perlopiù semi-sconosciuti, Oliver riesce a realizzare il suo sogno, ovvero portare sullo schermo, con Platoon, la sua personale esperienza in Viet-Nam, romanzandola e rendendola più brutale nella caratterizzazione di qualche personaggio (il tragico dualismo Dafoe/Berenger) per meglio esprimere la classica dicotomia tra bene e male.
L'ossessione per questo film è il fulcro dell'autobiografia, ma è anche il suo limite. O almeno lo è per me, che cerco, in queste operazioni letterarie, analisi, racconti, storie dietro la realizzazione di opere con cui sono cresciuto, per certi versi mi sono formato. Qui non mancano davvero, ma solo per i primi titoli (l'esperimento di Seizure, La mano, Salvador e, appunto Platoon). Il libro si chiude in quella fase storica, con i successi e gli Oscar, lasciandomi a bocca asciutta per tutto ciò che il regista realizzerà a seguire: Wall Street, Nato il quattro luglio, The Doors, JFK, Nixon, ma anche i "minori" Talk Radio e Tra cielo e terra, il controverso (per le polemiche con Tarantino) e schizoide Natural born killers, il gran colpo di coda di Ogni maledetta domenica.

Ad ogni modo lettura senza dubbio consigliata ai cinefili, nel personale auspicio di un seguito.


lunedì 26 febbraio 2024

Recensioni capate: The holdovers


Comincio a pensare che, col tempo, io mi sia piuttosto indurito (nei sentimenti) e non escludo di essere diventato un pò cinico. Si spiegherebbe così la ragione per cui non ha fatto breccia un film strappalacrime come The whale e perchè, pur avendola trovata una pellicola gradevole, natalizia per certi versi, non abbia raggiunto nessuna epifania per questo acclamato The holdovers. Anche qui prima i lati positivi del titolo: la prova del trio Giamatti/Sessa/Randolph (con Paul e Da 'Vine Joy in pole position per l'Oscar) senza dubbio rimarchevole. Poi la critica al sistema delle classi americano, che non guasta mai. Infine alcuni dialoghi efficaci e divertenti. Il tutto però, a mio modo di vedere non bilancia l'elemento narrativo di The holdovers: il plot visto e rivisto di un personaggio scorbutico che in realtà (accenno di spoiler) ha un cuore d'oro e si redime attraverso il sacrificio finale. Da Alexander Payne, regista soprattutto del cattivissimo Election, ma anche di Atlantic City,  era forse lecito aspettarsi qualcosa di più corrosivo. Alla fine ha sempre ragione Sir Alfred quando affermava che la ricetta per un buon film è composta di tre elementi: "sceneggiatura, sceneggiatura e sceneggiatura". 

lunedì 19 febbraio 2024

John Mellencamp, Orpheus descending (2023)

 


Album numero venticinque per uno dei beniamini di Bottle of Smoke. Chiedo scusa in anticipo se mi perdo spesso in paralleli tra artisti accumunati da un'affinità stilistico/anagrafica, tuttavia anche in questo caso, in premessa, mi piace ribadire quanto apprezzi la scelta coerente dell'artista di "accettare" serenamente il peso degli anni (John è del '51) e pertanto di smarcarsi dalle pose da rock mainstream che lo avevano a lungo caratterizzato a partire dagli ottanta. C'è peraltro da sottolineare come questo processo di maturazione sia in atto da tempo, ma è negli ultimi due tre lustri che ha raggiunto una stabilità per conto mio davvero apprezzabile. 

Certo, detto della condivisione in relazione alla direzione artistica assunta (l'opposto di Springsteen, non si fosse capito) poi ci devono comunque essere i contenuti. Come per i film, il messaggio è importante ma la messa a terra dell'opera necessita anche di altro. Ed è proprio questo il caso di specie, il difetto in cui a volte cade Mellencamp, per fortuna, in questo disco, solo per una manciata di canzoni. 
Orpheus descending si apre, se vogliamo, anche con una modalità coraggiosa, in questi tempi trumpiani e di dittatura dello "skip" facile, sparare subito tre composizioni che vanno dritto per dritto contro la situazione sociale americana: la povertà diffusa, l'ascensore sociale inesistente, l'assenza di possibilità concrete nella "land of opportunity", può non essere esattamente popolare. Quindi voto dieci al messaggio, molto meno alle leve usate per veicolarlo (testi e musica) che appaiono, ad esempio per The eyes of Portland un pò troppo paternalistiche, quasi fossero le analisi fatte da un borghese che esce sconvolto da un giro nei bassifondi. Questo, sia chiaro, senza voler mettere in dubbio l'onestà intellettuale e l'autentico afflato sociale di JM, che di questi temi canta da Pink houses, del 1983.

Ma, e qui sta la buona notizia, l'album cresce, e molto, addentrandosi nella tracklist, se fosse un vinile direi in coincidenza con il lato B, aperto dalla title track. Da quel momento inizia un'altra e ben più convincente storia. Orpheus descending è un grande pezzo stonesiano, ruvido e graffiante, a seguire Understated reverence, forse l'unica ballata solo voce, piano e violino mai registrata dall'artista, è qualcosa di abbagliante, tanto celebra la "nuova" voce sofferta, rauca, notturna dell'autore di Lonesome Jubilee
Lightning and luck salda il nuovo Mellencamp con il vecchio, mettendo assieme un refrain identitario con l'attuale approccio rilassato, mentre Perfect world (omaggio di Springsteen) evita i clichè del Bruce a corto di idee degli ultimi lustri, risultando anch'essa più che positiva.

Un disco buono, a tratti ottimo, le cui atmosfere evocative ed affascinanti devono molto alla mai troppo celebrata Lisa Germano e al suo incantevole violino. 


lunedì 12 febbraio 2024

Recensioni capate: The whale (2023)


Charlie è un professore di lettere che tiene corsi di laurea in modalità remota. A seguito della morte del suo compagno, decide più o meno consapevolmente di lasciarsi morire. Scivola in una condizione di obesità patologica che lo imbarazza (non incontra estranei e durante le lezioni on line tiene la propria fotocamera spenta) e che, soprattutto, gli provoca frequenti attacchi cardiaci. E' assistito dall'infermiera Liz che lo accudisce con affetto e autorità. Ha una figlia adolescente, Ellie, con cui cerca di recuperare il rapporto, spezzatosi da quando  ha deciso di vivere a pieno la sua relazione sentimentale con un uomo, lasciando la famiglia.

Non lo volevo vedere, questo film. Lo ammetto, sono prevenuto sulle produzioni hollywoodiane in cui attori normodotati interpretano le disabilità con abbrivio nella corsa all'Oscar. Ne ho visti a sufficienza per alimentare i miei pregiudizi a causa di narrazioni basate alla fine sempre su pietismo e ricerca dell'empatia con il pubblico unicamente attraverso la leva della commozione a buon mercato. Dopodichè resto sempre un gran incoerente (oltre che un appassionato cinefilo), e quindi, nell'ambito del recupero di alcuni film mainstream del 2023, l'ho messo sotto. E purtroppo le mie perplessità hanno trovato conferma.

Non che il film sia inguardabile, tutt'altro. La regia di Aaronfsky e la scelta di trasmettere ulteriore angoscia e claustrofobia attraverso l'uso del formato 4:3 rendono efficace la trasposizione del soggetto rispetto all'origine teatrale, almeno a livello di estetica. Bene poi il focus sul tema poi dell'obesità, probabilmente una delle patologie per noi tutti più respingenti, e verso la quale si colpevolizza maggiormente chi ne soffre, così come la critica sul sistema sanitario americano o il radicalismo di alcune organizzazioni religiose, e pur tuttavia è quello che in ultima analisi alza il livello di una pellicola (sceneggiatura, dialoghi, recitazione) che mi ha lasciato perplesso. 

Parto necessariamente da lui, Charlie/Brendan Frasier (Oscar, va da sè, tutti a dire bravissimo, io continuo a pensare che questi ruoli siano più "semplici" da interpretare di altri) in odore di santità: un personaggio paziente, educato, colto, disponibile e altruista fino all'estremo sacrificio. E che cazzo, perchè non farlo anche camminare sulle acque o volare (e in effetti...)?!? 
E poi c'è Ellie, la figlia, presentata come disadattata a causa del dolore inferto dall'abbandono paterno ma fatta interpretare da un'attrice (Sadie Sink) che non rimanda proprio alcuna condizione di disagio ed è quindi costretta a forzare sull'interpretazione e sui comportamenti da stronza (anzi no, genio incompreso) che compie in continuazione. 

Così gli aspetti positivi cui accennavo in precedenza, vale a dire la critica alla società americana, la morale ultra-cattolica e il disgusto che provoca in molti la sola vista di persone obese, ne escono ridimensionati. E anzi, la contro-morale che il film ci impartisce, laddove sembra quasi che la scelta di Charlie di abbandonare moglie e figlia piccola per vivere la sua relazione d'amore omosessuale sia, nell'ottica degli autori, più giustificabile, sostenibile e legittima che nel caso di tradimento per un'altra donna, arriva ad essere financo un pò fastidiosa. L'assioma, che si regge sul coraggio che questa scelta ha di andare contro, sfidare le convenzioni pubbliche  avrebbe avuto un grande senso negli anni cinquanta, oggi, insomma, direi di no. 

Che dire? Il mio bel pianto me lo sono anche fatto, ma that's all.

lunedì 5 febbraio 2024

Steve Earle, Jerry Jeff (2023)



Mi sono perdutamente innamorato di Steve Earle nella seconda fase della sua lunga vita artistica, quella, per intenderci, che segue gli affanni dovuti dalla tossicodipendenza e i problemi con la giustizia (quando, per usare le sue parole, lo hanno arrestato perchè "aveva colpito il manganello dei polizotti con la faccia"), il decennio da Train a coming (1995) a The revolution starts now (2004). Un periodo in cui, secondo me, il nostro ha saldato in maniera originale country, folk, blugrass, rock, blues e persino grunge, in maniera credibile e personale. 
L'attuale momento, che a mio avviso, dopo un buon album di transizione (Washington square serenade) inizia con Townes nel 2009, ci consegna un Earle perlopiù bucolico, impegnato a tramandare le tradizioni della old music americana (principalmente folk e country/blugrass) anche attraverso album monografici di tributo, senza rinunciare qua e la al suo afflato polemico contro l'establishment e il capitalismo USA.
Massimo rispetto dunque.

Tuttavia difficilmente questo Steve Earle avrebbe fatto così prepotentemente breccia nei miei gusti. I dischi sono tutti formalmente impeccabili, ma a volte si fatica a distinguerne uno dall'altro, nonostante l'immutata capacita di songwriting dell'autore di John Walker's blues. Anche in questo caso (il disco è dedicato alla memoria di Jerry Jeff Walker) non è che ci si possa lamentare di pezzi rispettosi delle tradizione rurali come Gettin' by; Gipsy songman o I makes money (money don't make me), o di classiche ballate acustiche come My little bird o My old man, ma insomma se le antenne si rizzano quando si cambia un pò canone con Hill country rain o con l'evocativo blues solo armonica e voce Old road, un motivo ci sarà pure. 

giovedì 1 febbraio 2024

Playlist consuntivo 2023 (5/5): metal

Eccoci alla vera impresa: stilare una playlist consuntiva annuale di musica estrema, dacchè, come per il buco del culo, in questo campo ognuno ha il suo (gusto) che si differenzia da quello degli altri.
Io ci ho messo un pò di tutto, dalle cose più nostalgiche che si cagano solo gli anziani miei coetanei, al nu nu metal, al death, al black che, paradossalmente, oggi è il (sotto)genere che più riesce ad interessare gli appassionati non metallari. Incredibile, se si pensa a quanto fosse settario e respingente ai tempi dei suoi primi, autenticamente spaventosi, vagiti.

01. Marduk, Blood of the funeral
02. In Flames, Meet your maker
03. Overkill, Scorched
04. Autopsy, Rabid funeral
05. L.A. GunsDiamonds
06. Periphery, Atropos
07. DodheimsgardDet tomme kalde morke
08. The Winery Dogs, Mad world
09. Prong, The descent
10. Cannibal Corpse, Blood blind
11. WayfarerA high plans eulogy
12. Johnny Booth, Full tilt
13. Extreme, Banshee
14. Fake Names, Delete myself
15. Veil of Maya, Godhead
16. Mudhoney, Little dogs
17. Svalbard, How to swim down
18. King Gizzard & The Lizard Wizard, Gila monster
19. Haken, Lovebite
20. Horrendous, Ontological mysterium
21. KerriganEternal fire
22. Majesties, The world unseen
23. Cirith Ungol, Velocity
24. Hell in The Club, Sidonie
25. Baroness, Last word
26. Insomnium, Godforsaken
27. Sleep Token, The summoning
28. Jesus PieceAn offering to the night
29. Vomitory, All heads gonna roll
30. Graveyard, Breath in breath out
31. Uriah Heep, Hurricane
32. Katatonia, Birds
33. Winger, Tears of blood
34. Steel Panther, Friends with benefits
35. Avenged Sevenfold, Nobody
36. Immortal, Wargod
37. Tesseract, Legion
38. Last in Line, Ghost town
39. Invent Animate, Without a whisper
40. Currents, Remember me
41. Humanity's Last Breath, Instill
42. Dying Fetus, Unbriedled fury
43. Avatar, The dirt I'm buried in
44. HEALT, Ashamed
45. Church of Misery, Freeway madness boogie
46. Heimdall, Hephaestus
47. Secret Sphere, Blackned heartbeat
48. Incantation, Concordat (The pact) I
49. Midnite City, Hardest heart to break
50. Metal Church, Pick a god and prey
51. Sacred Outcry, The flame rekindled
52. Godflesh, Land Lord
53. Code Orange, Take shape
54. Cattle Decapitation, A photic doom
55. Within Temptation, Bleed out
56. Fires in The DistanceIdiopathic despair



lunedì 29 gennaio 2024

Margini (2023)

 


I Wait for nothing sono un gruppo HC punk ahi loro, non di Detroit ma di Grosseto. La band, composta dagli amici Michele, Edo e Iacopo, nonostante le frustranti difficoltà di esibirsi o anche solo trovare uno spazio per le prove, decide di concedersi una botta di vita organizzando un concerto per un grande nome americano (i Defense) cui fare da opener, sperando così, in termini di visibilità, di beneficiare della prevista grande affluenza di pubblico. 

Immagino non sia complessivamente semplice fare un film così, sugli struggimenti di un gruppo che fa musica intransigente, politicizzata, urticante e fuori moda, nella sonnacchiosa provincia italiana. Non è semplice dal punto di vista produttivo, visto lo stato del nostro cinema, e non è banale dal punto di vista "ideologico", sarebbe stato infatti un tradimento riuscire a realizzare Margini senza però rispettare concettualmente la disciplina straight edge di un genere che è anche uno stile di vita. Il film supera di slancio entrambe le difficoltà. Gli ideatori Niccolò Falsetti (anche regista) e Francesco Turbanti (il protagonista Michele) mettono in scena qualcosa di credibile proprio perchè autenticamente calato in un territorio e una realtà musicale che ben conoscono, in quanto già membri di un gruppo punk, i Pegs, che si è misurato continuamente coi problemi (di provincialismo, budget, strumentazione, location) raccontati nel film.

Al netto di una sceneggiatura validissima che elude gli abusati clichè cinematografici (a titolo esemplificativo cito la conclusione della sequenza in cui Iacopo siede sulla panchina della stazione indeciso se mollare gli altri e partire o restare per il concerto)  e dialoghi convincenti, verosimili, l'arma in più del film è la capacità di intrecciare uno stile di vita che si vuole irriducibile con un'ipocrita parassitismo familiare dei due protagonisti, uno mantenuto da mamma e compagno, l'altro dalla moglie. Una contraddizione espressa magnificamente in un sola linea di dialogo, quella che Edo rivolge alla mamma chiedendole preoccupato se abbia stirato la maglietta dei Discharge: un cortocircuito geniale tra un modello di ribellismo punk e un pò di bamboccionismo. 

Bravissimi, perchè credibili, tutti i personaggi, a partire dalla band: Michele (Francesco Turbanti), Edo (Emanuele Linfatti) e Iacopo (Matteo Creatini). Menzione d'onore per il ruolo sopra le righe ma divertentissimo del titolare della discoteca Eden nonchè compagno della madre di Edo, Nicola Rignanese. 

Da rimarcare infine come  il film sia stato entusiasticamente "approvato" dall'ampio sottobosco di band punk/hardcore italiane, che hanno composto la colonna sonora e permesso l'utilizzo dei propri brani, dai seminali Negazione a Klaxon, Gli Ultimi, i Rappresaglia, gli stessi Pegs e i Payback, che nella pellicola interpretano gli americani Defense.

Se non si fosse capito, un autentico, insperato gioiellino.

giovedì 25 gennaio 2024

Playlist consuntivo 2023 (4/5): la roba di tendenza

Scusa per il titolo sciatto, ma insomma sì, a sto giro è il turno della musica che, oltre a piacere a me, raccoglie riscontri e consensi nelle classifiche di fine anno delle riviste e dei siti più cool, autorevoli e seguiti. Con qualche eccezione/incoerenza.

01. Mitski, Bug like an angel
02. Shame, Fingers of steel
03. Anohni and the Johnsons, It must change
04. Pere Ubu, Love is like gravity
05. Puma Blue, Falling down
06. Caroline Polachek, Welcome to my island
07. Algiers, Irreversible damage
08. Lucio Corsi, Astronave giradisco
09. Creeper, Cry to heaven
10. Grave Pleasures, Heart like a slaughterhouse
11. Bar Italia, Nurse!
12. Billy Woods & Kenny Segal, Soft landing
13. Blur, St. Charles square
14. The Armed, Liar 2
15. Yo La Tengo, Sinatra drive breakdown
16. Deli, Ice spice
17. Kara Jackson, Dickhead blues
18. Swans, Los Angeles city of death
19. PJ Harvey, Lwonesome tonight
20. Noname, Balloons
21. Olivia Rodrigo, Bad idea right
22. P.I.L., Car chase
23. The Murder Capital, Return my head
24. Paramore, Running out of time
25. Sufjan Stevens, Will everybody ever love me
26. Kali Uchis, Moonlight
27. Fever Ray, Kandy
28. VV, Loveletting
29. Poppy, Spit
30. Gorillaz, Silent running
31. Dream Wife, Social lubrification
32. SZA, Kill Bill
33. Squid, The blades
34. Clock DVA, The simulacra
35. Wednesday, Chosen to deserve
36. Aamarae, Reckless & Sweet
37. Karma, Atlante
38. Meshell Ndeogeocello, Clear water
39. Yves Tumor, Heaven surrounds us like a hood
40. Jungle, Back on 74
41. Lana Del Rey, Candy necklace
42. Corinne Bailey Rae, New York transit queen
43. Boygenius, Not strong enough
44. Cherry Glazzer, Ready for you
45. Durand Jones, That feeling
46. Rick Astley, Forever and more
47. Roisin Murphy, Fader
48. Slowdive, Kisses
49. Bachi da Pietra, Nel mio impero
50. Lankum, The New York trader
51. Young Fathers, I saw
52. Troye Sivan, One of your girls
53. Zulu, From tha gods to earth
54. Grian Chatten, Fairlies